E quindi le indiscrezioni sono confermate e Matteo Salvini ha annunciato ieri a Ponte Lambro, complicata periferia meneghina, che non si candiderà al Consiglio comunale di Milano. Sarebbe una «non notizia» se non fosse che è la prima volta da trent'anni a questa parte. Un'era geologica della politica che da quel lontano 1993, regnante sindaco il mite e compianto Marco Formentini, ha visto il rampante militante del Movimento comunisti padani, salire tutte la scalinate dei Palazzi, passando dai pantaloncini corti con i quali andava in aula davanti all'inorridito Gabriele Albertini, alla grisaglia da vice premier con delega al ministero dell'Interno. Lunare, ma non per uno che è riuscito a far carriera nella Lega raccontando che «mentre frequentavo il liceo andavo al Leoncavallo: là stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni». Frasi poi smentite, ma anche no. Niente da dire, ci vuole un bel talento per passare dal centro sociale alla stretta di mano istituzionale con il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, passando per i cortei con CasaPound. Roba da fuoriclasse. Il tutto, e questa è davvero l'unica costante, la candidatura in consiglio a Milano. La sua città, quella nella quale ha promesso di tornare un giorno da sindaco. Il che, in verità, non si capisce se sia davvero un atto d'amore, visto che la fascia tricolore viene rimandata alla fase evidentemente calante dell'avventura biografica e politica.
Si vedrà. Di certo a dargli il benvenuto non sarà quell'Albertini che pure Salvini avrebbe (ri)voluto candidato per il centrodestra nell'ardua sfida con Beppe Sala. «Io Salvini lo conosco bene» aveva detto Albertini al Foglio lo scorso ottobre, in occasione di un suo contrasto con il governatore lombardo Attilio Fontana sull'ordinanza per il coprifuoco. «Il suo compito - la sentenza di uno che ha fatto il liceo dai gesuiti - è tenere allegra la gente. Non è un uomo capace di governare». Ruggini che evidentemente risalgono ai nove anni tra il 1997 e il 2006 nei quali da sindaco aveva dovuto convivere con i sorci verdi di quello scapestrato in braghette. «L'ho visto all'opera da consigliere comunale. Faceva parte della maggioranza e andava in piazza a fare opposizione». Memorabile la mattina in cui «Teo», come lo chiamano amici e Giovani padani, convocò i cronisti davanti al comando della Polizia che allora era ancora municipale e per protestare contro i commerci abusivi degli extracomunitari, allestì di fronte alla porta carraia un mercatino abusivo con tanto di cassette di frutta e merce contraffatta.
Solo una birichinata per finire il giorno dopo sui giornali, pensarono gli altri con sufficienza. E, invece, di monelleria in monelleria e di pagina di giornale in pagina di giornale, il consigliere comunale di strada ne ha fatta parecchia. Brandendo come una clava quel microfono di Radio Padania di cui da direttore faceva la perfetta estensione della sua politica in Comune. Di qui il parlamento, l'europarlamento, il governo e Palazzo Chigi, prendendosi nel frattempo una Lega in disarmo per portarla a uno stratosferico 40 per cento.
E, invece, questa volta i milanesi non troveranno nemmeno il suo nome nella scheda. «Sto lavorando per tutta l'Italia, anche se ho Milano nel cuore», ha detto ieri. Deriva mal digerita da quell'Umberto Bossi che era sempre stato il suo braveheart e che già più volte lo ha accusato di «barattare il Nord per i voti del Sud». I maligni dicono che la fuga da Milano sia per la paura di mettere la faccia su un candidato come Luca Bernardo che al momento sembra un po' arrancare.
O che il vero timore sia la sfida sui voti con l'agguerritissima europarlamentare leghista (ex Forza Italia) Silvia Sardone che proprio da lui ha imparato la guerriglia pancia a terra sul territorio. Già l'altra volta fu una donna a schiaffeggiarlo: quella Mariastella Gelmini che contò quasi 12mila preferenze contro le sue 8mila. Malignità. O forse no.
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