Se anche il conflitto diventa abitudine

Ci si abitua a tutto, anzi, peggio, ci si adatta.

Se anche il conflitto diventa abitudine

Ci si abitua a tutto, anzi, peggio, ci si adatta. E' un modo istintivo e razionale insieme per assorbire il dolore provocato da una sofferenza troppo lunga nel tempo. Ma la stessa cosa vale anche per le situazioni belle della vita: dopo un po' non le si colgono più nella loro differente eccellenza: appaiono scontate, diventano normalità. Difronte alle realtà che rappresentano sia nuova bellezza e amore, sia profonde e dolorose ferite, alla fine, col passare del tempo, esse diventano consuetudine, routine. Ieri, al Parlamento belga, Zelenski ha sottolineato come la guerra in Ucraina stia diventando una routine, ma non per chi la patisce, bensì per coloro che l'osservano da spettatori. Chi osserva da lontano, sta al sicuro, e tuttavia è impressionato dalla novità drammatica della guerra, ancor più perché essa si svolge in un posto a lui molto vicino: un'indiscutibile novità che non accadeva da quasi un secolo. Essere testimoni di una guerra da una distanza che non coinvolge direttamente, ma che possiede un'evidente prossimità territoriale tale da divenire aggressiva anche per chi la guarda dal salotto di casa, rende inquieti, ovviamente interessati anche ai dettagli di ciò che sta accadendo. E poi? Se perfino quei dettagli sono sempre gli stessi? Allora accade esattamente quello che ha detto Zelenski: ci si abitua alla tragedia, perché, a chi non la vive, la guerra viene raccontata, e un racconto per non essere noioso, ripetitivo, deve esibire novità, colpi di scena. Che questo non accada, che la guerra in Ucraina si stia svolgendo con una drammaticità sempre più nota, sempre più consuetudinaria, ce lo conferma la comunicazione giornalistica, televisiva. Diminuiscono gli spazi di cronaca, i dibattiti si strascicano alla ricerca di novità che non ci sono, se si trova il mattacchione di turno che spara le sue fesserie si alza l'ascolto, non per quello che sta accadendo in Ucraina, ma per il mattacchione. La pervasività, la rapidità della globalizzazione propria della comunicazione moderna brucia rapidamente le notizie, appiattendo l'interesse, sbiadendo le immagini della tragedia. Anche una volta era così, soltanto i tempi erano molto più lunghi. Ci si ricorda il grande romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale? Un ragazzo, soldato di diciannove anni, viene colpito a morte ormai alla fine della guerra, in una bella giornata di sole, e nessuno ci fa più caso.

Per infrangere lo schermo dell'indifferenza, per non trasformare la tragedia della guerra in una routine quotidiana, non sarà mai questo un compito che potrà svolgere la comunicazione con la sua assillante ricerca di novità: è necessaria quella responsabile, civile intelligenza del pensiero che raggiunge l'essenza delle cose, osservandole all'interno con pietosa lucidità per cogliere la crudeltà del male ed evitare che una serena abitudine offuschi la verità in modo da poter ritornare a preoccuparsi dei propri interessi. Come prima.

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