
Il salmo 127 è il canto dei pellegrinaggi di Salomone. «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella». È una preghiera, una speranza, un viaggio. È la ricerca di una terra dove gli sfiniti trovano pace. Sant'Agostino su questo testo ha scritto un'esposizione, un commento, una interpretazione, chiaramente in latino. In Illo uno unum. È il motto episcopale scelto da Leone XIV. Si può tradurre così: in Lui siamo uno. Lui è Cristo. È una linea che unisce due punti. È una speranza di unità, anzi una fede. È un concetto spirituale che viene espresso con una formula che si può immaginare come una funzione algebrica. Robert Francis Prevost, il nuovo Papa, è in fondo un matematico. È la vocazione che ha accompagnato da sempre la sua ricerca di Dio. Tutto in uno. La convinzione che prima o poi le cose ritrovino la sua unità e qualcosa in questi giorni è successo, proprio dentro il conclave, all'interno di una Chiesa che non vuole rinnegare il suo nome e si sente, si concepisce, sempre e ancora universale. È questo in fondo quello che non ti aspetti. La distanza tra Chicago e Lima in linea d'aria sfiora i seimila chilometri. Un volo diretto è di circa sette o otto ore. Questo Papa le sente vicine. Sono la rotta della sua vita, con un centro fuori dimensione che lo porta a Roma. La sua elezione, veloce e non affatto scontata, è il primo segno di una ritrovata unità. Non c'è solo questo. C'è la chiesa occidentale che si specchia, senza sfregiarsi, in quella che spera nel Sud del mondo. È un ponte. Il Papa, l'agostiniano di Chicago, con le radici che affondano in quella periferia industriale che non produce più, è andato a cercare la sua terra in Perù. Lì, tra le polveri e le preghiere delle colline brulle, ha ritrovato il significato della parola «comunità». Un uomo che non ha mai voluto fuggire dal suo tempo, ma che lo ha attraversato con uno sguardo profondo e dolente. Sapeva che la modernità ha il vizio di dividersi in tribù solitarie, che la globalizzazione si è trasformata in una parodia di se stessa, una macchina che unisce solo per produrre profitto e spezza l'anima in mille pezzi. Leone XIV arriva nel momento in cui il mercato si fa meno globale. La grande promessa del villaggio globale si è sgretolata sotto il peso delle disuguaglianze e delle barriere innalzate per paura. C'è una specie di neo-medievalismo che avanza, con nuovi feudi digitali e poteri concentrati nelle mani di pochi signori. La rete si è chiusa come una trappola e le persone, nella loro ricerca di una comunità vera, si trovano disorientate, senza un punto di riferimento. È qui che Leone XIV ha voluto affondare il suo bastone pastorale, nel cuore della questione sociale. Non come un'ideologia, ma come un racconto antico e nuovo al tempo stesso.
Il suo nome, scelto non a caso, porta con sé il ruggito di un leone che ha smesso di nascondersi. Vuole rimettere al centro la dottrina sociale della Chiesa, non solo come risposta politica, ma come consapevolezza della infinita debolezza dell'umanità, quella paura che scaccia pace e libertà.
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