
Il diavolo si nasconde nei dettagli. Ma il nodo degli ostaggi non è un dettaglio, bensì la sostanza stessa dell'accordo di pace. Non a caso è al primo punto dei colloqui di oggi a Sharm El Sheik tra la delegazione di Hamas e quelle di Egitto, Qatar e Stati Uniti. Il paradosso sta velocemente venendo alla luce. Israele e Usa pretendono che la restituzione dei 20 prigionieri ancora in vita e i resti dei 28 deceduti rappresenti il primo atto del processo. Ma per Hamas consegnare ostaggi e corpi significa rinunciare all'arma indispensabile per negoziare i punti più svantaggiosi dell'accordo. Primi fra tutti le modalità del disarmo, le fasi del ritiro israeliano e i tempi per la restituzione stessa degli ostaggi. La partita, già non facile, s'intreccia con le divisioni interne. Ieri fonti della dirigenza politica hanno fatto sapere di aver chiesto l'interruzione dei bombardamenti per permettere il recupero di alcuni corpi, sostenendo che sia già cominciato. Ma la notizia è stata smentita poco dopo da altre fonti vicine a Hamas. Se la dirigenza all'estero sembra pronta al compromesso in cambio di un futuro ruolo politico garantito dai padrini qatarioti, quella militare invece, arroccata tra le rovine di Gaza City (dalla quale sono andati via 900mila civili), teme l'inevitabile sradicamento dalla Striscia.
Il compito di trovare un'intesa tra le due anime del movimento e guidare le trattative è affidato, non a caso, a Khalil al-Hayya. La scelta è al tempo stesso simbolica e strategica. L'alto esponente dell'ufficio politico, oltre ad aver perso un figlio nel raid israeliano sull'ufficio di Hamas a Doha, è stato l'esponente più vicino a Yahya Sinwar, il defunto capo di Hamas nella Striscia, artefice del 7 ottobre. Proprio per questa sua fama di duro è considerato il più adatto a smussare le resistenze di Izz al-din al-Haddad, attuale numero uno del movimento nella Striscia. Il problema è fin dove possa spingersi la duttilità di un Al Hayya pronto a spiegare che solo "il sangue del popolo palestinese versato a Gaza indicherà il cammino per la vittoria". Come dire che ben difficilmente cederà alle richieste di procedere in tutta fretta al rilascio degli ostaggi.
Al Hayya non può però ignorare le pressioni dei padrini del Qatar. Grazie a quelle pressioni l'Emirato è stato promosso ad alleato di riferimento dell'Amministrazione Trump in Medioriente. Un ruolo che ridimensiona persino la posizione di Israele, fin qui unico sodale della potenza americana nella regione. Una promozione confermata dalla solerzia con cui la Casa Bianca ha fatto circolare la foto di Netanyahu costretto da Trump ad afferrare un telefono e scusarsi con il premier del Qatar per il raid aereo su Doha. Forte di questo nuovo ruolo, l'Emirato preme su Hamas perché consegni gli ostaggi e accetti una trattativa in cui Doha si farà garante della sua sopravvivenza politica e del suo coinvolgimento nella formazione delle autorità provvisorie chiamate a gestire Gaza. In tutto questo, l'emirato ha un altro asso nella manica. I mediatori qatarioti hanno fatto inserire il nome di Marwan Barghouti tra i 250 ergastolani che dovrebbero venir liberati da Israele in cambio degli ostaggi.
Il leader di Fatah, in carcere da oltre vent'anni, è considerato dalla maggioranza dei palestinesi di Cisgiordania il leader "in pectore" della futura Autorità Nazionale Palestinese. Ma Barghouti sostiene da sempre la necessità di formare un governo di unità nazionale con Hamas. Se Doha riuscirà a farlo liberare, Hamas avrà ottime speranze di tornare in gioco.