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Si vota, riparte il fango

Stampa internazionale (e italiana) in soccorso della sinistra: contro il "rischio Meloni" arrivano gli editoriali militanti di "allarme". Come con Berlusconi e Salvini

Si vota, riparte il fango

Siamo due avversari convinti e, spero, leali». Era questo il sogno di una notte di mezza legislatura di Giorgia Meloni, convinta di aver trovato in Enrico Letta un carissimo nemico che invertisse il trend di delegittimazione sistematica riservata a lei, a Fdi e al centrodestra. Purtroppo, è bastato un giorno di campagna elettorale per dimostrare che una competizione civile con i dem è solo pia illusione. Non importano le smancerie alle presentazioni dei libri, né la concordia quando si tratta sul Quirinale, né l'atteggiamento da agnellini in cravatta: quando si vota, a sinistra non si fanno prigionieri. E il richiamo della foresta dell'ex Pci, quell'istinto feroce di demonizzare ogni avversario, è più forte di tutto.

Le danze le ha aperte come spesso succede Repubblica, che ha fatto della demolizione preventiva di qualsiasi sfidante del Pd una missione. Così ieri, insieme ai consueti richiami alle «ombre nere», per dimostrare che «negli Usa cresce l'allarme per una post-fascista a Palazzo Chigi», si citavano «editorialisti e diplomatici» terrorizzati. Già, ma chi? Il primo è David Broder, commentatore del New York Times e collaboratore di Jacobin, rivista socialista e anticapitalista su cui scrivono sinceri liberali come Corbyn e Varoufakis. Broder è uno storico britannico del comunismo convinto che il Pci filo sovietico in Italia sognasse «una democrazia progressista», che Forza Italia sia «di estrema destra» e il governo Draghi sia «il primo esecutivo post-democratico in Occidente».

Insomma, una voce schierata che rappresenta il sentiment americano quanto Damiano dei Måneskin quello del Vaticano.

La seconda fonte di «allarme» è la newsletter GZero, su cui Willis Sparks si chiede - parole di Rep - «se l'erede della tradizione post-fascista e la campionessa del nazionalismo euroscettico sia la persona più adatta a guidare l'Italia». Peccato che l'articolo, piuttosto equilibrato, in realtà sottolinei come «il pragmatismo della Meloni sa battere il suo nazionalismo».

Insomma, pronti, via e parte il solito giochino, con la stampa estera che lancia il puntuale allarme democratico seguendo una formula scientifica: se sale al potere X (dove X è il leader di centrodestra di turno, «inadatto» a prescindere, da Berlusconi a Salvini a Meloni), torna il fascismo, le cancellerie inorridiscono, i mercati crollano e arrivano le cavallette, tanto ormai con queste temperature è plausibile.

«Democratica» nella ragione sociale, post-ideologica in teoria e dogmatica in pratica, la sinistra italiana da trent' anni apre strategicamente agli altri quando servono ai suoi scopi (vedi Bossi, Fini, Alfano...), salvo poi stracciare ogni patente di legittimità politica sotto elezioni. Ed è così che il «proficuo confronto» con chi la pensa diversamente si tramuta in pura caccia al reietto. Sia sui giornali, sia nei tribunali.

Fin qui, tutto da copione come un «no» grillino a una grande opera. Sta al centrodestra usare la presunta «superiorità morale» della sinistra come molla per ritrovare un orgoglio di coalizione oltre errori e conflitti. Perché la sfida non è strappare la premiership, ma dimostrare che un'Italia moderata e conservatrice è una risorsa di serietà, non un pericolo. E che il centrodestra unito può battere le corazzate progressiste, siano esse gioiose macchine da guerra come nel 1994 o stanche macchine del fango (internazionale) come nel 2022.

Può bastare come motivazione per ricominciare a remare tutti nella stessa direzione?

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