L'aspetto più tragico dell'ingiustissima sorte di Alexei Navalny è nel raffronto morale tra la sua figura e quella del suo assassino Vladimir Putin. Tra un uomo di straordinario coraggio e un classico tipo di vigliacco. Tra un uomo che voleva fondare la sua carriera politica sul genuino sostegno del popolo e un altro che di quel popolo ha sempre avuto, come tutti i dittatori, una maledetta paura fingendo, tipicamente, di amarlo.
È per questo, alla fine, che Navalny ha perso la sua sfida personale con Putin: perché il presunto leader amatissimo dal popolo non poteva tollerare che la sua bugia venisse smascherata da un altro uomo politico in grado di mobilitare, come Navalny aveva fatto fin dall'inizio degli anni Dieci, grandi folle contro di lui. Impedendo all'uomo simbolo dell'opposizione di fare politica, e infine di vivere, Putin ha odiato e perseguitato il popolo russo, quello stesso che ieri sera a Mosca è sfilato in silenzio e in fila a deporre fiori in memoria di Navalny, zitto e buono sotto gli occhi della polizia mentre le autorità diffondevano la minaccia del dittatore: nessuna manifestazione sarà tollerata.
Zitti e buoni, dunque. A questo sono ridotti, sotto il tallone di Putin, i russi, che pure portano una grave responsabilità per avergli consentito di trasformare il loro Paese nella dittatura militarista e fascistoide che oggi è. Un Paese costretto ogni giorno di più a credere, obbedire e combattere; dove pensionati e minorenni vengono condannati ad anni di prigione per critiche anche minime al regime; e dove Putin ha appena promulgato una legge draconiana che prevede la confisca dei beni di chi «infanga le forze armate» chiedendo di fermare l'aggressione all'Ucraina. Ma noi? Noi italiani cui nessuno impedisce di informarsi, di capire, di discutere e di manifestare le proprie opinioni, cosa facciamo?
La domanda è, dopo l'assassinio di Stato di Navalny, doverosa. Perché adesso più che mai non si può più fingere che Vladimir Putin sia quello che non è: il potenziale partner dell'Occidente sospinto all'inimicizia dalle nostre presunte provocazioni, lo statista razionale che si sarebbe accontentato di incamerare il Donbass (come se fosse cosa sua!) se americani e britannici non lo avessero costretto a combattere una guerra contro i «nazisti ucraini», il leader legittimo voluto e sostenuto elezione dopo elezione dal popolo russo. Sciocchezze come queste non si possono più sentire, né da sinistra né da destra né da giornalisti altezzosi che si impancano a dare degli scemi di guerra a chi ha capito che Putin è un delinquente cui si deve resistere anche in armi.
L'Italia è purtroppo piena di politici e opinionisti pronti a strizzare l'occhio a un criminale internazionale e a professare un pacifismo ipocritissimo. Di solito lo fanno per anti americanismo di sinistra (modello Santoro o Marco Rizzo), o per istintiva consonanza con quello che appare come una reincarnazione di Benito Mussolini (modello Alemanno), o per anti europeismo che porta molti a credere che il diavolo sia a Bruxelles invece che al Cremlino, o ancora per un superficiale sfoggio di egoistica Realpolitik.
Ma con Navalny chiuso in una bara, lo scenario si semplifica: chi non chiama Putin ciò che è un assassino seriale è suo complice in un disegno che va molto oltre la libertà della Russia e dell'Ucraina. Perché il vero obiettivo di Putin è la fine della nostra.
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