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La sinistra voleva un premier ancora più forte. E ora grida al "golpe"

Nella bicamerale di D'Alema e nelle proposte di legge gli allora Ds puntavano a un capo del governo che potesse nominare e revocare i ministri e chiedere di sciogliere le Camere

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«Utilizzeremo ogni strumento della dialettica parlamentare contro un disegno che riteniamo pericoloso». È la promessa della segretaria del Pd Elly Schlein che descrive il disegno sul premierato del governo Meloni come una «riforma pasticciata» che stravolge la Costituzione. A sinistra le critiche si sprecano. «La cosiddetta norma anti-ribaltone è la più sgangherata del ddl Casellati: rende inamovibile non il premier eletto dal popolo ma chi eventualmente prende il suo posto senza investitura popolare. Il simul simul c'è, ma per la seconda scelta! Una prima mondiale. Roba da comiche», scrive su X il dem Dario Parrini, vicepresidente della commissione Affari Costituzionali del Senato. L'editorialista di Repubblica Massimo Giannini, invece, definisce la riforma meloniana un «golpetto all'amatriciana». In realtà, il centrosinistra italiano non è sempre stato contrario a dare maggiori poteri al premier. Anzi, il primo tentativo di riforma costituzionale della Seconda Repubblica è stata la bicamerale voluta nel 1997 da Massimo D'Alema dove le ipotesi in campo furono essenzialmente due: il semipresidenzialismo alla francese oppure un «premierato all'italiana». In sede di votazione prevalse, per pochissimi voti di scarto (36 a 31) il semipresidenzialismo, ma poi la bicamerale naufragò e non se ne fece nulla. Alla luce delle politiche che sta suscitando la riforma Meloni è bene, però, ricordare anche il testo di riforma presentato dall'allora senatore diessino Cesare Salvi che proponeva, appunto, una forma di premierato all'italiana. Non vi era l'elezione diretta del capo del governo, ma al secondo comma del primo articolo si stabiliva che la candidatura alla carica di primo ministro dovesse avvenire «mediante collegamento con i candidati all'elezione della Camera dei deputati, secondo le modalità stabilite dalla legge elettorale, che assicura altresì la pubblicazione del nome del candidato Primo ministro sulla scheda elettorale». In sintesi, la riforma Salvi sanciva l'indicazione del candidato premier ma, nei fatti, prevedeva un vincolo fortissimo per il Capo dello Stato che, a urne chiuse, poteva nominare solo il leader della coalizione vincente. «Il Presidente della Repubblica, alla proclamazione dei risultati per l'elezione della Camera dei deputati, nomina Primo ministro il candidato a tale carica al quale è collegata la maggioranza dei deputati eletti», recita l'ultimo comma del primo articolo. Ma non solo. A differenza della riforma della Meloni, quella di stampo dalemiano, all'articolo 2, prevedeva che il primo ministro avesse il potere di nomina e di revoca dei propri ministri. Il terzo articolo, invece, riguardava un'altra importante prerogativa che la riforma del centrodestra lascia in mano al Quirinale: «Il Primo ministro, sentito il Consiglio dei ministri, sotto la sua esclusiva responsabilità, può chiedere si legge nel testo - lo scioglimento della Camera dei deputati, che deve essere in tal caso decretato dal Presidente della Repubblica».

È, dunque, singolare che l'opposizione gridi allo scandalo per la riforma del governo quando il centrosinistra è sempre stato favorevole a un rafforzamento dei poteri del premier.

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