La società aperta e il nemico bifronte

La società aperta nasce dal coraggio di fidarsi dell'altro. È un miracolo fragile, perché non ha mura a difenderla, ma solo ponti

La società aperta e il nemico bifronte

Un uomo cammina sulle Alpi. È minuto, ha il volto scavato dal vento, le mani strette su un bastone. Non sa che sta lasciando un messaggio a chi verrà cinquemila anni dopo. Lo troveranno ibernato in un ghiacciaio e lo chiameranno Ötzi. Non è solo un cadavere venuto dal passato. È un archivio vivente di ciò che significa essere umani. Porta scarpe cucite con pelle di cervo e suole d'orso. Ha con sé un'ascia di rame che non viene da lì ma dalla Toscana. Nella sua sacca ci sono funghi medicinali, selci intagliate che parlano di mani lontane, di scambi, di mercati primitivi. Ogni oggetto racconta che già allora l'uomo non viveva chiuso, ma aperto, in una rete invisibile di scambi e conoscenze. Ötzi era fragile, ma camminava con la forza di una civiltà intera. È da qui che comincia il saggio di Johan Norberg sul "miracolo della società aperta". Il titolo del libro è Open e in Italia è stato appena pubblicato da Rubbettino. C'è una cosa che un po' sorprende: Norberg non è un pessimista. È un intellettuale controcorrente che scommette sull'umano, sulla capacità magari inconsapevole di salvarsi in modo rocambolesco dall'apocalisse, con un salto indietro a un passo dal burrone. Non è solo una scommessa sullo spirito di sopravvivenza o sulla fortuna immeritata dei tanti Mister Magoo, orbi sempre in orbita, che passeggiano su questa terra. È la scommessa sulla natura umana, maledetta e bastarda quanto si vuole, ma comunque miracolosa, perfino quando l'individuo, centro dell'anarchia, finisce male la sua vita, ucciso dalla freccia di uno come lui. Ötzi, mercante solitario, è stato ucciso dal suo prossimo, ma questo non è un buon motivo per rinnegare il desiderio di esplorare, di segnare rotte, di uscire dal proprio cerchio più o meno magico.

La società aperta nasce da qui, dal coraggio di fidarsi dell'altro. È un miracolo fragile, perché non ha mura a difenderla, ma solo ponti. La storia è piena di queste aperture improvvise, come squarci di sole in mezzo alle tempeste. Atene, con i suoi mercanti e i filosofi che parlavano nelle piazze. Bagdad, quando era il centro del mondo e raccoglieva in un'unica biblioteca i saperi di greci, persiani, indiani. La Cina dei Song, che stampava libri e calcolava con polveri alchemiche. Firenze, che inventava il Rinascimento sotto il segno del denaro e dell'arte. Amsterdam, che scopriva che il profitto può essere una forma di fede. Ogni volta lo schema è lo stesso: l'apertura genera fioritura, la chiusura crea declino. Non ci sono pepite d'oro da tramandare, come scrive Johan Norberg. Non è l'Occidente che ha un destino scritto. È l'apertura, sempre, ovunque. E ogni volta, puntuale, arriva la paura. Le élite che difendono i propri privilegi, gli imperi che chiudono i porti, i popoli che innalzano muri. La Cina che rinuncia alle sue navi, l'Europa che dopo Roma spegne la sua luce. Siamo doppi: mercanti e tribali. Abbiamo inventato il commercio e la cooperazione, ma sappiamo anche chiuderci nel clan, nella voce del capo, nella sicurezza apparente della tribù. Ogni rinascimento incontra la resistenza di chi teme di perdere. È la legge della storia: ciò che fiorisce può appassire. Ciò che illumina può essere spento da un soffio di paura. Il nostro tempo non fa eccezione. Abbiamo creduto che la caduta del Muro di Berlino fosse il segnale di una marcia inarrestabile verso l'apertura. Poi abbiamo visto le Torri Gemelle cadere e il sospetto prendere il posto della fiducia. La pandemia ha mostrato la fragilità delle catene globali, i porti chiusi, i governi che alzano barriere. La pandemia ci ha fatto sentire l'altro come un nemico. Ci hanno detto che non dovevamo fidarci. Questa prudenza individuale è diventata legge di Stato e abbiamo dovuto chiedere il visto di affidabilità, un certificato di partecipazione alla vita civile. Tutto questo non è avvenuto a costo zero e il sentimento del mondo che stiamo vivendo non è alieno dalla cultura del tempo del Covid. Abbiamo ereditato sfiducia e sospetto. Respiriamo disumanità. È il codice binario che salta costantemente da Greta a Vannacci. È lo zero e l'uno della società chiusa, quel sentimento politico di opposte paure che misura il consenso minuto per minuto e sforna ricette con la stessa base: l'uomo è infido e va rieducato.

Il miracolo della società aperta non è un paradiso. È una crepa. È lo spazio in cui un'idea imprevista, un'intuizione inattesa, una tecnologia senza padrone possono cambiare tutto. È il mercato che accetta l'errore e lo trasforma in lezione. È la democrazia che sopporta la protesta e la trasforma in energia. È la libertà di sbagliare senza dover chiedere permesso. Nulla è garantito. Nessuna generazione eredita l'apertura come un bene acquisito. Ogni volta bisogna difenderla dalla tentazione del capo forte, dal richiamo della tribù, dall'illusione che chiudersi sia più sicuro che rischiare l'incontro. Basta un istante per spegnere la luce, ma basta una crepa per farla tornare.

È questo il miracolo fragile che ci tiene vivi. Non è un dono dell'Occidente. È l'unico segreto dell'uomo che non ha corazze né artigli, ma ha imparato a camminare con gli altri. Ötzi lo sapeva senza saperlo. Noi dovremmo ricordarlo ogni giorno.

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