Politica

Spiegoni, ex voto e Veroniche di un chierichetto del Pd

Dalla stampa cattolica a La7, dall'"Espresso" alla Rai, la "parabola" di un politico convertito al giornalismo

Spiegoni, ex voto e Veroniche di un chierichetto del Pd

Irpino, di indole cupa e triste, da parte di madre; piemontese, fake-news e cortese, da parte di padre; Marco Damilano, romano di nascita e figlioccio di Prodi, vive metà giornata in Parlamento e l'altra metà in televisione, sia Rai sia La7, in nome del pluralismo contrattuale, frequenta tutti i salotti e le terrazze quirite ed è di casa nella sinistra romana di lotta, di Palazzo e di governo. Nato alla Balduina, quattrocento metri in linea d'aria da via Fani, di famiglia morotea, figlio di una insegnante (ecco l'aria da nato imparato) e di un giornalista Rai (può capitare...), svezzato a congressi e campagne elettorali dove i campioni erano Berlinguer e De Mita, cresciuto a pane, Pci, mortadella e Ulivo; una vita per il centrosinistra, dove il centro è sempre troppo a destra e la sinistra troppo poco a sinistra, chierichetto di quel cattolicesimo democratico che ebbe il proprio Papa in Pietro Scoppola, modi preteschi e tratto ecumenico, confondendo la predica con lo spiegone, Damilano a Roma, andata senza mai fare ritorno, resta da comunista bianco l'alfiere più sincero della sinistra-sinistra di Propaganda e di intelletto, pronto a ogni sacrificio per il Partito: toccò a lui scrivere la biografia ufficiale di Walter Veltroni che, credendo alle favole, intitolò Il piccolo principe. Pacato, educato, studiato, non ambizioso, né competitivo, capace di slanci di affetto, dicono gli amici, epperò - la tavolata è quella ideologico sino al fideismo. Amatriciana, abbacchio alla scottadito e carciofi alla Giudìa.

Romano, romanista e romanesco appena corretto dall'inflessione di via Teulada il tono è un mix di Zerocalcare, Christian Raimo e Zoro, ve meritate il Pojana e Elodie Di Patrizi - Marco Damilano vive per la politica, il giornalismo e la televisione, in ordine inverso di preferenza. La terza è un divertissement ex cathedra, il secondo un mandato apostolico, la prima una passione inestinguibile da quando, quattordicenne, il padre lo iniziava ai riti dei congressi Dc e diciassettenne seguì in stato di trance l'elevazione di Cossiga al Colle.

Scuole private obtorto collo, liceo classico alla prestigiosa Scuola Pontificia Pio IX, l'unico ad arrivare in classe con i giornali sotto il braccio e poi gli è rimato sempre il debole per la mazzetta, compagno di banco del futuro politologo Govanni Orsina, associazione giovani cattolici della «Rosa Bianca», laurea in Storia contemporanea a Scienze politiche della Sapienza (con tesi su televisione e politica, e a qualcosa gli sarà servita...), voto, ex voto e il mito di Giampaolo Pansa (il primo Giampaolo Pansa...), debutto nel sacro mondo dell'informazione anno Dini 1995 al settimanale dell'Azione cattolica Segno 7, poi Diario e dal 2001 all'Espresso: prima come cronista politico, e quindi direttore. Lo è stato dall'ottobre 2017, quando il giornale vendeva 200mila copie cartacee, al marzo 2022, quando era sotto le 90mila. Mah... Forse quelle copertine con l'uomo incinto e i pipponi sulla «diversità come ricchezza» non erano una grande idea... E comunque ormai era tempo di dimissioni, in polemica con la proprietà per via della vendita del settimanale a Danilo Iervolino. Passare dagli Agnelli al patron della Salernitana era troppo anche per uno come lui che crede nell'uguaglianza sociale.

Poco socievole, ancora meno social (su Twitter ha 60mila follower ma segue solo 8 account: Makkox-Marco Dambrosio, il megadirettore La7 Andrea Salerno, Diego Bianchi, il New York Times, la Casa Bianca, Michelle e Barack Obama... e #sticazzi, no?), non sposato, niente figli, variamente fidanzato, dress code stazzonato (camicia, maglioncino e giacca, la cravatta la mette solo il giorno dell'insediamento delle nuove Camere, e se c'è un premier Pd), il massimo della mondanità un tavolino al baretto Caffè Olimpia, a un cappuccio di distanza da piazza del Parlamento, workaholic ma semi astemio, la Tribuna politica come religione gli onorevoli agognano di poterlo salutare e lui, consapevole di ciò, ricambia come se li degnasse di una laurea - e il Transatlantico come via crucis, ma confortato dalle discepolesse: le Veroniche si chiamano Alessandra Sardoni, ex Videomusic, e Susanna Turco, ex Unità, che s'abbeverano alla sua Scienza del governo. E per il resto, ha sempre vissuto la tv come la democrazia. Non lo entusiasma, ma la accetta come necessaria. Ospite fisso della trasmissione Gazebo, chez Rai 3, poi Propaganda Live, quindi tutti i La7 peccati capitali: Omnibus, Tagadà, Dimartedì, In Onda, Piazzapulita, Otto e mezzo, le Maratona Mentana, fiato corto e lingua felpata... Domanda: è vero che Urbano Cairo l'anno prossimo compra i diritti del Festival di Sanremo e lo fa condurre a Damilano e Lilli Gruber?

In bilico fra il giornalismo show e la politica dei selfie, Damilano è il Castore della Polluce per eccellenza del Pd narrato via La7, ovvero Alessandra Sardoni. Tanto lei vigila sulle sorti della Repubblica reggendo il microfono a Enrico Mentana, quanto lui sciorina spiegoni nel bar-studio di Propaganda Live dove il ceto medio riflessivo d'area romana alza ogni anno l'asticella dell'ortodossia. Loro arrivano sempre prima sul fronte dell'impegno sociale. Se oggi la correttezza ideologica impone il razionamento delle docce loro, con Damilano esteticamente stropicciato, non se le fanno neanche. Se l'input demo-ecologista è andate in bicicletta, Damilano che non ha la patente va a piedi. O in taxi, alla faccia della liberalizzazione del settore.

Settario, democratico ma nel senso di Partito, stopper più che libero o liberale (gioca a calcetto, e in campo è come in tv: la tecnica è quella che è, ma basta picchiare l'avversario sulle caviglie), Marco Damilano finita la stagione dell'Espresso ha subito trovato, come tutti i direttori che dopo aver affossato il proprio giornale vengono promossi a più alti incarichi, un'immediata ricollocazione professionale. E in nome della regola aurea secondo cui a condurre le nuove trasmissioni d'informazione si chiamano giornalisti «di fiducia» (sinonimi: «di sinistra»), e opportunamente sprovvisti della matricola Rai, Damilano ha vinto la nuova striscia in access prime time sul Raitre - durata: 10 minuti; titolo: La torre e il cavallo; compenso: entro il massimale di 240mila euro l'anno, «Ah: grazie Carlo Fuortes per il rinforzino» - dando scacco matto alle regole interne, alla deontologia professionale e ai giornalisti già a libro paga Rai. E sul fronte del contratto, diciamo che la questione poteva essere gestita meglio.

Comunque, la trasmissione doveva debuttare a settembre ma vista l'emergenza di una feroce campagna elettorale anti-Destra, è stata anticipata al 22 agosto. Visti i tempi stretti, sembra che lo studio da cui trasmettere non sia ancora pronto. Forse Damilano comincerà conducendo dalla strada. Che, di per sé, ha qualcosa di evangelico, oltre che giornalistico. «Io sono la via, la verità e la vita». La sinistra cattolica - tutta Ztl, DdlZan e Bella ciao, «Ciao bello, come stai?» - ripartirà da qui. Dai marciapiedi.

Intanto Marco Damilano per non farsi sfuggire neppure uno spazio ha iniziato a scrivere su Domani, debuttando ça va sans dire, che in romanesco si dice Me cojoni! con l'ennesimo articolo su Mattarella, ultimo eroe moderno e supremo argine contro le destre. Come dicono quelli usciti da Sciences Po: «Aridatece er contesto».

Ma a volte basta un nostalgico Dc.

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