
Il 4 novembre 1979 qualche centinaio di studenti islamici - incendiati dalla propaganda anti-americana di Khomeini - assalta l'ambasciata Usa di Teheran. Inizia così la «crisi degli ostaggi», con cui il regime degli ayatollah chiedeva in riscatto per i 52 dipendenti dell'ambasciata il rimpatrio dello Scià Reza Palhavi, riparato negli Stati Uniti dopo la rivoluzione islamica. Mario Cervi seguì come inviato per «Il Giornale» la crisi da Teheran. Pubblichiamo oggi uno dei suoi straordinari reportage.
nostro inviato a Teheran
Oggi, venerdì, giorno di festa dei musulmani, una moltitudine eccitata e festante si è radunata nel recinto della università di Teheran per pregare ed ascoltare concioni infiammate ed ha quindi sfilato davanti all'ambasciata americana preda delle guardie islamiche. Gli studenti armati che hanno nelle loro mani i sessanta ostaggi statunitensi, e la folla con loro, hanno confermato, scandendo slogan intransigenti, che i sequestrati non sarebbero posti in libertà neppure se Carter scacciasse oltre confine lo Scià. Solo consegnandolo al popolo iraniano potrà placarne la sete di vendetta.
L'ambito degli edifici universitari, con le strade, i viali e le piazze che li attorniano, fu teatro di scontri sanguinosi durante il convulso tramonto dell'impero di Reza Pahlavi. Ora, periodicamente, quelle strade, quei viali e quelle piazze si trasformano in un'immensa moschea all'aperto, per riti che sono insieme religiosi e patriottici. Lo spettacolo è impressionante. Per un'area immensa si stende una marea umana. Il campo di calcio dell'ateneo, a una delle cui estremità era stato eretto un palco, o piuttosto una specie di teatrino per la celebrazione, era stamane gremito di uomini e così lì attorno. Al di là di un muro, nettamente separate, stavano le donne, tutte in chador, molte attorniate da bambini.
Ciascuno tra i presenti si era portato il tappetino da preghiera, o nel peggiore dei casi un giornale che ne facesse le veci: e, toltesi le scarpe, aspettava paziente, sotto il mite sole d'autunno, che l'ayatollah Montazeri, membro del Consiglio della rivoluzione, imam del venerdì (il solo imam permanente è Khomeini) facesse la sua apparizione. Nelle funzioni di Imam del venerdì, Montazeri, quasi ottantenne, diciassette anni di carcere sotto lo Scià, è succeduto al defunto Talegani.
Nell'attesa di Montazeri qualcuno declamava dall'altoparlante: "Questo nido di spie deve essere chiuso" e una selva di braccia alzate, e contemporaneamente un grido corale, approvavano. Il nido di spie è ovviamente quello dell'ambasciata americana e ormai non solo quello. Sulla scia delle straordinarie scoperte fatte nella sede diplomatica, dove carte innocue e normali walkie-talkie sono stati presentati come dimostrazione di tenebrosi complotti, altri covi vengono annunciati: uno, ad esempio, in un ospedale inglese, a Isfahan. Tutto per dimostrare che non si è colpita un'ambasciata protetta dalle convenzioni internazionali, ma un'officina di eversione, della quale ciascuno dei sessanta prigionieri era una temibile spia.
Era mezzogiorno quando Montazeri si è presentato alla folla, solenne e ieratico, la mano destra impugnante un fucile come fosse un bastone pastorale (prima della rivoluzione l'imam si appoggiava alla spada). Con voce un po' strascicata, dapprima recitando il Corano, quindi affrontando l'attualità, Montazeri ha spiegato che l'insegnamento di Maometto è totale, religioso, politico, morale, economico, sociale. Dal che deriva che il prete, il mullah, deve avere tutto il potere.
In nome di Maometto, ha aggiunto, si deve lottare contro la immoralità che corrode l'Europa e l'America. Centro di corruzione è per lui, ovviamente, l'ambasciata degli Stati Uniti. "Noi abbiamo attaccato - ha detto un nido di spie che è un ostacolo al nostro progresso. Se taglieremo i rifornimenti del petrolio, l'Europa e l'America saranno in ginocchio. È passata l'epoca in cui un miliardo di musulmani doveva inginocchiarsi davanti a tre milioni di israeliani. Con il petrolio abbiamo un'arma potente. Gli Stati Uniti non oseranno un intervento armato, non commetteranno più questo errore, dopo il Vietnam".
Montazeri ha quindi fatto una pausa, si è seduto e si è rialzato, perché l'imam del venerdì deve pronunciare due discorsi. La sua conclusione è stata dura: "Carter deve sapere che vogliamo riavere lo Scià altrimenti la lotta sarà più aspra".
Dopo il vegliardo è stata la volta di un ragazzo, uno di coloro che si sono impossessati dell'ambasciata. Un tono più veemente ancora, e un appello alla massa perché, finite le preghiere, raggiungesse in corteo l'ambasciata degli Stati Uniti. Montazeri approvava.
Per la preghiera la moltitudine, un milione di persone, anzi di più, si è piegata a terra nella liturgia islamica con fervore. Una fase mistica alla quale è seguita immediatamente - nella logica della fusione fra guerra e religione - la marcia sull'ambasciata. Una colonna larga alcune decine di metri e lunga chilometri, anche se solo un terzo o un quarto forse di coloro che erano all'università ha contribuito a formarla. Devono essere stati un tormento quegli urli, quegli slogan, il ruggire di quegli altoparlanti per i poveri sequestrati. Le guardie islamiche hanno consegnato a un gruppo di dimostranti un paio di bandiere americane perché fossero gioiosamente date alle fiamme, insieme ad un ritratto grottesco di Carter.
Un'altra giornata, dunque, senza trattative. Le rifiutano gli studenti, che non vogliono come intermediario neppure l'Olp, e che esigono una capitolazione degli Stati Uniti di fronte alle loro pretese (ma parlare solo degli studenti è improprio, perché Khomeini e gli altri maggiori ayatollah li appoggiano, e probabilmente se ne sono anche serviti per togliere di mezzo, con la crisi irano-americana, l'ormai scomodo Bazargan). Gli emissari di Yasser Arafat, che aspettano senza sapere cosa fare, affermano, per salvare la faccia, di essere venuti in Iran allo scopo di parlare con Khomeini, non per cercare mediazioni e compromessi. Yazdi, il ministro degli Esteri, non occupa più il suo posto. Bani Sadr è stato designato dal Consiglio della rivoluzione come responsabile della politica estera (il termine ministro sembra alquanto desueto) e si è recato a Qom per ricevere l'investitura di Khomeini. Bani Sadr e Yazdi erano i due più fidati collaboratori di Khomeini, a Parigi. Ora Bani Sadr sembra prevalere nei favori del santone sul suo collega e rivale.
"Noi orientali abbiamo pazienza", mi ha risposto un brillante laureato di università europea che tuttavia condivide pienamente le tesi estreme di Khomeini quando gli ho chiesto, a manifestazione finita, quando questo nodo dell'ambasciata si risolverà. "Gli ostaggi - ha insistito - non saranno mollati; sono affidati a quattrocento studenti armati che eseguono la volontà dell'imam".
"Ma se l'ospitare lo Scià è una grave colpa - ho tentato di obiettare -, perché non avete prima occupato l'ambasciata messicana?". "Gli Stati Uniti - ha tagliato corto sono il nemico. In fin dei conti lo Scià è un pretesto".10 novembre 1979