S piazza tutti, tutti i giorni, anche più volte al giorno, a cominciare dai giornalisti, sia americani che europei che adesso tendono all'autocritica ammettendo di essersi accodati all'anti-trumpismo rozzo e stradaiolo. Sta emergendo così la vera tattica di Donald Trump: spiazzare e sorprendere, restando impassibile con la sua mitraglietta per tweeter sempre in mano. In meno di quarantotto ore ha colpito amici e nemici restando impassibile e assicurando che tutto si rimedierà. Ma, come diceva il presidente Theodore Roosevelt, avendo sempre in mano un nodoso bastone. Intanto ha fatto buon viso a cattivo gioco di fronte a un giovane giudice dello Stato di Washington il quale dalla piovosa Seattle ha emesso un «ruling» una regola con valore di legge, che annulla la chiusura delle frontiere ai viaggiatori di sette Paesi islamici, fra cui Iran, Iraq, Libia e Siria con i suoi rifugiati. Trump, che è per il fine settimana nel suo resort a Palm Beach ha reagito in modo sprezzante contro «il cosiddetto giudice» il cui «ridicolo provvedimento sarà azzerato». Lo ha definito un giudice «che pretende di mettere ai margini le forze dell'ordine dal nostro Paese».
Il giorno prima, aveva compiuto il beau geste di autorizzare personalmente l'arrivo di una bimba iraniana che deve essere operata d'urgenza al cuore benché con l'Iran abbia aperto un contenzioso di cui diremo fra poco. Ma cominciamo dalla Russia. Spiazzando tutti ha insediato un'ambasciatrice all'Onu l'ex governatrice del South Carolina Nikki Haley - che non si sogna minimamente di alleggerire le sanzioni alla Russia considerando inaccettabile la politica aggressiva verso l'Ucraina di Vladimir Putin. Sorpresa amara per il Cremlino subito addolcita con un pacco dono consistente in attrezzature hi-tech per agenti segreti: i russi non sanno produrne di così sofisticate e in genere le copiano: zio Donald le regala con un fiocco rosso per marcare il campo e mostrare fraternamente chi comanda.
Altrettanto fraternamente ha sbattuto la porta in faccia a «Bibi» Netanyahu che stava festeggiando a colpi di nuovi insediamenti nel West Bank l'uscita di scena dell'arcinemico Barak Obama, consigliandolo fraternamente di piantarla subito perché con nuove case in territorio ex palestinese non si va avanti nel processo di pace. Un grazioso consiglio, alla vigilia dell'arrivo a Washington del primo ministro israeliano che a casa sua è pieno di guai per una maggioranza traballante e nuove accuse di corruzione.
Con l'Iran è andato giù pesantissimo dopo l'ultimo lancio di un missile balistico di Teheran decretando nuove pesanti sanzioni economiche, il consiglio di prendere sul serio il suo avvertimento e dichiarando in video che l'opzione militare «is not out of the table», non è affatto esclusa. Questa decisione a muso duro nei confronti di Teheran è anche un altro strappo all'ipotesi di alleanza con Putin, il quale vorrebbe benignamente invitare gli Stati Uniti al tavolo che decide le sorti della Siria, intorno al quale siedono oltre ad Assad e lo stesso Putin, anche il turco Erdogan e gli Ayatollah iraniani che controllano le milizie Hezbollah in Libano. Il tavolo pazientemente messo insieme dal presidente russo non ha così alcuna possibilità di funzionare se l'ultimo invitato, Trump, minaccia di bombardare il collega iraniano. Per ora Mosca tace, ma la preoccupazione cresce.
Il quarantacinquesimo Presidente ha poi mandato segnali analoghi ma del tutto imprevisti alla Corea del Nord spedendo il neo segretario di Stato Rex Tillerson a Seul per affermare che per Pyongyang sono pronte reazioni «devastanti e mostruose» se solo la Corea del Nord si azzarda ad usare un'arma atomica o se minaccia di farlo. Parole, queste, dolci come il miele per il Giappone di Shinzo Abe che già nel periodo di attesa dell'insediamento di Trump si era piazzato nella sua Tower a New York e aveva detto: «Signor Presidente, vorrei avvertire il mondo che il Giappone è tornato e che può ricostruire le sue potenti e modernissime forze armate».
E poi l'Australia: un Paese fratello che ha partecipato a tutte le guerre americane, dalla prima guerra mondiale all'Afghanistan e che adesso si vede brutalizzato dal presidente americano a causa di un vecchio accordo fra il primo ministro Malcolm Turnbull e Barak Obama sull'accoglimento di alcune migliaia di emigrati islamici per ora stanziati in Australia. C'è il giallo della telefonata tempestosa con l'interlocutore di Canberra che sarebbe dovuta durare un'ora e che invece è finita dopo solo 28 minuti perché «The Donald» avrebbe (ma la versione è ufficialmente smentita) sbattuto il telefono in faccia all'interlocutore. Anche gli «Aussies», come vengono affettuosamente chiamati gli australiani, sono scesi in strada con i cartelli anti Trump, come i manifestanti di Washington.
Queste, sono tutte apparenti contraddizioni: Trump aveva detto che avrebbe abolito la Nato, e invece non se ne parla, mentre restano ben insediate le nuove truppe mandate da Obama in Polonia e accolte come salvatrici. Idem con la Corea di cui aveva detto in campagna elettorale che non era affar suo occuparsene e idem anche per il Giappone avvertito fino a qualche mese fa che gli Stati Uniti non sono più la baby sitter dei costosi alleati.
Tutti questi eventi e questi segnali sembrano andare in un'unica direzione: l'America di Trump non pensa affatto di chiudersi in se stessa ma sembra più che mai protesa sugli scenari esterni per stabilire le regole del nuovissimo «secolo americano» fondato sul ricco business per chiunque voglia giocare, ma anche su una risposta militare super
tecnologica che nessuno è in grado di contrastare. Anche l'idea di un Trump tenuto al guinzaglio da Putin sembra far parte delle fantasie del passato. Trump dice: eccellenti e fraterni rapporti con Mosca, però alle mie condizioni.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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