Politica

La strategia del basso profilo condivisa con Mattarella

Dal presidente né sgambetti né tutele. E neppure veti sui nomi. Solo cordialità e indicazioni di metodo

La strategia del basso profilo condivisa con Mattarella

Lui e lei. Lui è il capo dello Stato, politico di lunghissimo corso, una storia cattolico-sociale alle spalle, rieletto perché non ne trovavano un altro all’altezza. Lei, molti anni di meno, radici di destra, sorpresa dell’anno, è la prima donna della storia a conquistare Palazzo Chigi. Più di diversi di così non si può, eppure tra i due «c’è un forte rispetto reciproco». E infatti, da buon padre della Repubblica, dopo averle conferito l’incarico Sergio Mattarella le ha subito regalato un ottimo consiglio, che si può sintetizzare così: profilo basso e testa ai dossier, lavora senza fare clamore e fai parlare i fatti. Ma non sarà un compito facile. Giorgia Meloni gli ha dato subito retta, anzi era già di quell’idea, infatti ha velocemente silenziato le frange estreme e più chiassose della sua coalizione, con lo scopo evidente di offrire un’immagine la più rassicurante possibile per i mercati e i partner europei. Tra le prime mosse della neo premier, lo scambio di informazioni e di gentilezze con Mario Draghi, un altro con cui, dicono, la stima è vicendevole. In sostanza, un cambiamento nella continuità. In ballo ci sono i miliardi del Pnrr. Sul Colle la Meloni troverà non un amico, perché comunque «questo non è il suo governo», ma una sponda istituzionale leale. Nessuno sgambetto, niente tutele. Del resto che non l’avrebbe ostacolata lo si è capito nel corso della gestazione dell’esecutivo. La Meloni, dopo aver ingaggiato diversi duelli con gli alleati, a un certo punto ha deciso di scegliere da sola la sua squadra, confrontandosi con il capo dello Stato soltanto per i posti più delicati: Interni, Esteri, Difesa, Economia. Mattarella, preso atto del risultato elettorale «chiarissimo», ha ridotto al minimo le interferenze, senza però rinunciare al suo ruolo di parte attiva. Dunque dal Quirinale nessun veto sui nomi, ma precise indicazioni di metodo, che poi di fatto hanno portato a spostamenti ed esclusioni. Mattarella, ad esempio, le ha fatto capire che un filoputiniano non poteva andare alla Farnesina. Le ha detto che l’Economia non era il posto giusto per un euroscettico. Le ha spiegato che non era opportuno che un segretario di partito finisse al Viminale o alla Giustizia. Le ha ricordato che per un nemico della Nato la Difesa era tabù. E che doveva stare attenta a possibili conflitti di interesse: da qui lo scambio di poltrone all’ultimo tra Guido Crosetto e Adolfo Urso. Giorgia si è attenuta alla linea, anzi l’input presidenziale le è servito per scavalcare le ultime resistenze. In cambio ha ottenuto da Mattarella una specie di corsia preferenziale: consultazioni flash, due giorni scarsi, procedure abbreviate, un mandato senza nemmeno la riserva. Risultato, un governo a meno di un mese dalle elezioni. Peraltro l’esigenza della Meloni di fare in fretta per non finire stritolata o depotenziata è coincisa con quella del presidente di dare subito una guida al Paese. «Condizioni interne e internazionali esigono un esecutivo nella pienezza dei suoi poteri». La guerra, le bollette, la crisi energetica, la legge di bilancio. E d’ora in avanti «collaborazione». Che non significa tutela, perché quello che nasce è un governo politico. Una volta chiarito il posizionamento internazionale dell’Italia e il rispetto dei trattati Ue è Nato, non si vedono al momento motivi di frizione o commissariamento da parte del Colle. Per ora solo dialogo.

E «cordialità».

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