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Quella stretta via dei conti tra pensioni e Superbonus

Nemmeno Mario Draghi - l'altissimo tra i tanti premier (otto) che si sono succeduti dalla crisi finanziaria del 2011 fino a oggi fu escluso dal tiro al bersaglio. Figurarsi i governi politici

Quella stretta via dei conti tra pensioni e Superbonus
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Sparare sulla manovra finanziaria è una disciplina ormai quasi olimpica, praticata da anni, sia da destra sia da sinistra. Nemmeno Mario Draghi - l'altissimo tra i tanti premier (otto) che si sono succeduti dalla crisi finanziaria del 2011 fino a oggi fu escluso dal tiro al bersaglio. Figurarsi i governi politici. E il motivo è molto semplice: qui soldi non ce ne sono. Il debito pubblico di oltre 3.100 miliardi, pari al 137% del Pil, non permette di fare spesa in deficit, visto che la capienza del rapporto tra deficit e Pil (fino al 3%) è interamente assorbita dalle uscite per pagare, ogni anno, gli interessi sul debito. Con questa cappa di piombo che si è ritrovato sulla testa, l'attuale governo prova comunque di distribuire risorse a famiglie e imprese, cercando di circoscrivere, all'interno di queste due categorie, i gruppi che più necessitano di ossigeno. E non solo per semplice equità, ma anche per iniettare un po' di benzina nei motori di ricavi (per le imprese) e consumi (per le famiglie) che poi trasmettono la loro energia alla crescita del Pil. Mentre, nello stesso tempo, il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, ha posto fine già dal 2023 a quel Superbonus rivelatosi un meccanismo infernale di trasferimento di risorse dallo Stato a una ristretta cerchia di fortunati, che si arricchivano (pur legittimamente) ai danni di tutti gli altri, creando nuovo debito pubblico (esistono stime attendibili di un conto di altri 80 miliardi solo di qui al 2027). Come non ne avessimo già abbastanza. Nemmeno lo stesso Draghi, che aveva nella sua maggioranza i 5 Stelle, aveva osato toccare i bonus. Giorgetti lo ha fatto. E lo ha fatto avendo in testa, condivisa con la premier Giorgia Meloni, un'idea precisa di politica economica. Povera, se volete. Ma precisa. E coerente: dare a famiglie e imprese, senza appesantire il debito, per raccogliere così il consenso dei mercati. E questo è quello che anche questa manovra, la quarta del governo Meloni-Giorgetti, sta continuando a fare.

Criticare l'impianto di una manovra che muove 18 miliardi è dunque tanto legittimo quanto furbetto. E pure ingrato, perché se lo spread è oggi a 65 punti contro i circa 200 dei giorni delle elezioni del 2022, e se le maggiori quattro agenzie di rating (Moody's, Standard & Poor's, Fitch e Dbrs) hanno alzato il rating della Repubblica italiana (per Moody's non accadeva da 23 anni) il merito è proprio della politica economica del governo in carica, sommata con la stabilità politica che ne garantisce la continuità per un periodo ragionevolmente lungo.

Dopodiché all'interno di questo quadro, si possono fare le cose meglio o peggio (e questo è forse un po' il caso di queste ultime ore). Urtando la sensibilità ora di questa ora di quella parte politica che sostiene l'attuale maggioranza di centrodestra. Ma la linea di galleggiamento resta garantita. E, visti i tempi che corrono, non pare poco.

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