
È riduttivo pensare alla nuova ondata di dazi come un nuovo capitolo della guerra commerciale tra Washington e il Resto del Mondo. Quello a cui stiamo assistendo rappresenta invece l'ultimo tassello di un più ampio processo di riscrittura dell'ordine economico internazionale. Siamo di fronte alla costruzione di un nuovo patto geopolitico che utilizza il commercio come leva strategica per ridefinire le alleanze globali.
Sotto il cappello dello slogan America First, la Casa Bianca sta implementando un meccanismo pensato per colpire non solo Pechino, ma anche quei Paesi che hanno funzionato da valvola di sfogo per l'export cinese verso il mercato americano. Stati come Vietnam, Malesia, Cambogia, Taiwan e persino Canada si sono prestati negli anni a pratiche di transshipment, consentendo alle imprese cinesi di aggirare le sanzioni doganali.
Ora però lo schema cambia: non basta più cambiare l'etichetta o la rotta del container. Washington ha attivato una strategia chirurgica che mira alla filiera, alla tracciabilità, all'origine industriale del prodotto.
Esemplare, in questo senso, il caso del Canada, che si è visto alzare i dazi dal 25% al 35%, con un'ulteriore penalità del 40% in caso di triangolazioni sospette. Ma l'aspetto più interessante è l'elenco dei Paesi colpiti: Svizzera, Corea del Sud, Israele, Sudafrica, Laos. Non si tratta di grandi esportatori verso gli Stati Uniti, ma di hub strategici, Stati-cerniera, nodi di un sistema economico che Washington vuole riscrivere secondo i dettami del realismo geopolitico. I dazi pertanto non sono più un semplice strumento di protezione economica. Sono una forma di diplomazia coercitiva. Un modo per dire ai partner: scegliete da che parte stare. Non si tratta più di punire, ma di costringere al riallineamento strategico necessario agli occhi di Washington per non perdere la competizione strategica contro Pechino.
In questo contesto, l'Europa e in particolare l'Italia è chiamata a una riflessione urgente. Se da un lato l'imposizione di tariffe da parte americana colpisce le imprese esportatrici, dall'altro apre una finestra di opportunità. Forzata ci mancherebbe ma che non possiamo non cogliere. Il dazio medio applicato dagli Stati Uniti alle merci cinesi si aggirerà intorno al 40%, mentre quello verso l'Italia si fermerà al 15%. Un differenziale del 25% che, se ben sfruttato, può rivelarsi un vantaggio competitivo decisivo per le PMI italiane attive nella componentistica industriale, settore in cui la concorrenza cinese rimane particolarmente aggressiva.
Serve insomma una politica industriale degna di questo nome. È tempo di creare nuove filiere produttive che possano presentarsi sul mercato americano con proposte chiavi in mano. Dove non è possibile costruirle ex novo, vanno favorite aggregazioni tra Pmi. L'obiettivo deve essere quello di traghettare l'Italia da subfornitore della manifattura tedesca a partner industriale strategico degli Stati Uniti.
I segmenti da presidiare sono chiari: impiantistica, meccanica di precisione, valvole industriali, automazione. Settori in cui l'Italia vanta eccellenze e dove il divario di costo con la Cina, aggravato dai dazi, può trasformarsi in vantaggio competitivo, cambi valuta permettendo. Certo, ci saranno comparti penalizzati, soprattutto quelli dove il dazio del 15% sarà superiore a quello applicato ad altri Paesi competitor. Ma l'industria della componentistica può essere il nuovo cavallo di Troia dell'Italia nel mercato nordamericano. Aspettare Bruxelles in questo ambito non è necessario: siamo noi come Paese a doverci muovere studiando attentamente le caratteristiche dell'industria statunitense, identificando punti di forza e debolezza.
Per concludere i dazi non vanno subiti, vanno gestiti per quanto possibile.
E, soprattutto, trasformati in leva per ricostruire un'industria nazionale troppo spesso umiliata da una politica economica europea priva di visione attenta solo ai velleitari e perniciosi obiettivi climatici. Oggi abbiamo una finestra aperta. Sfruttiamola prima che sia troppo tardi.