Avere impiegato 1.135 giorni a depositare un provvedimento che doveva emettere in un mese non le sembrava così grave. E nemmeno avere sforato di 2.555 giorni i termini per una sentenza. Neanche l'inverosimile conto totale dei ritardi accumulati costituiva per il giudice M.T., in servizio al tribunale di Nocera Inferiore, motivo sufficiente per venire colpita da una sanzione disciplinare. Così quando il Consiglio superiore della magistratura le ha inflitto una punizione, peraltro non particolarmente severa, la dottoressa ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo che il Csm aveva dimenticato di considerare le sue giustificazioni, quelle che rendevano comprensibile la lentezza con cui per anni aveva assolto ai suoi doveri: l'eccessivo carico di lavoro, la insufficienza degli organici. Sono le spiegazioni consuete che l'Associazione nazionale magistrati offre quando emergono i dati sui tempi d'attesa interminabili cui devono sottostare i cittadini in attesa di sentenza. Ma che ora né il Csm né la Cassazione ritengono più un alibi accettabile per tirare in lungo all'infinito, facendo durare anni processi che dovrebbero durare mesi.
È una sentenza a suo modo innovativa, quella emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione il 4 novembre e resa nota dal Messaggero, perché restringe gli spazi per i processi-lumaca, e collega direttamente l'entità della punizione del magistrato ai giorni di ritardo cui i cittadini sono stati costretti. E, soprattutto, esclude che il carico di lavoro possa essere invocato sempre e comunque a giustificazione: è sufficiente, dice la Suprema Corte, imparare ad organizzarsi meglio.
A richiamare l'attenzione della sezione disciplinare del Csm era stato l'esposto di una cittadina, parte in un processo civile davanti al tribunale di Nocera Inferiore, che denunciava di avere atteso la conclusione di un procedimento iniziato otto anni prima: una denuncia che era stata integrata dall'ispezione inviata nel 2022 dal ministero della Giustizia nel tribunale campano. Gli inviati di via Arenula avevano chiesto conto alla dottoressa dei suoi arretrati, e il dato complessivo è risultato impressionante. Nel provvedimento emesso dalla "disciplinare" del Csm si legge che "si tratta di ritardi significativamente numerosi, pari a oltre l'80 per cento di tutti i depositi effettuati dalla dottoressa M.T. nel quinquennio oggetto di ispezione, i quali hanno superato ampiamente il triplo del termine previsto per legge per il compimento dell'anno".
Il triplo, va ricordato, è la soglia limite che il Csm accetta per gli sforamenti dei tempi concessi ai giudici per le loro decisioni: per l'emissione dei decreti ingiuntivi il codice assegna al magistrato trenta giorni di tempo per provvedere, ma fino a centoventi giorni il ritardo è considerato accettabile. Arrivare a 1.145 giorni è sembrato intollerabile anche al Consiglio superiore, avendo superato il "limite di ragionevolezza individuato dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo". Invano la giudice M.T. ha provato a spiegare che Nocera, specie dopo l'accorpamento con le preture di Cava dei Tirreni e Mercato San Severino, "si trovava in una situazione di grave insufficienza d'organico" che le creava un "enorme e insostenibile carico di lavoro". Dati che per il Csm "non sono sufficienti a giustificare i ritardi gravissimi e reiterati".
Il dato peggiore sono i ritardi oltre i tre anni delle ordinanze civili riservate, "determinanti per l'esito stesso del processo". Così il Csm condanna M.T., e la Cassazione conferma. Pena: perdita di anzianità di due mesi, il minimo previsto. In fondo le è andata bene, un privato cittadino avrebbe rischiato di perdere il posto di lavoro.