Un bel profumo di tempi andati, la nostalgia dolente dell'epoca in cui la magistratura incarnava la linea del Piave contro l'armata vincente del centrodestra. Nel congresso (che termina oggi a Palermo) della corrente di Area Democratica per la Giustizia, nome un po' prolisso per la vecchia, imperitura corrente delle «toghe rosse», a lanciare tra ieri e l'altro ieri il revival del «resistere, resistere» è il segretario uscente Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma: che come spesso accade ai leader a fine mandato ci tiene a lasciare traccia di sé almeno nei ricordi e nelle emozioni. Così tuona dal palco e ancor prima tuona a mezzo stampa, con una intervista tellurica alla Stampa in cui per dire dell'Italia il peggio possibile accomuna il paese ad un elenco di presunte nazioni canaglia: l'Ungheria, la Polonia, l'America di Trump e (incredibilmente) Israele.
A sottilizzare, ci si potrebbe domandare se il rigore che il ministro della Difesa Guido Crosetto ha avuto nel far rientrare tra i ranghi il generale Vannacci, ricordandogli che un servitore dello Stato ha un diritto di parola limitato, verrà impiegato anche nei confronti di Albamonte. Che, anche nella forma, si permette inconsuete libertà di linguaggio: quando, per esempio, definisce Matteo Renzi «ubriaco di maggioritarismo». Ubriaco, testuale.
Il problema è che, davanti alla platea di Area, Albamonte è tutt'altro che solo. Le uscite finali del leader che attribuiscono al governo una deriva quasi golpista («norme insidiose per gli equilibri democratici definiti dalla Costituzione») vengono accolte dagli applausi. In attesa del successore di Albamonte - quasi sicuro Giovanni «Ciccio» Zaccaro, ex Csm - sarebbe da chiedersi se magistrati saggi ed esperti che fanno parte della storia di Area (dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo al suo pm Giovanni Ardituro) si riconoscano appieno nei furori di Albamonte. Ma lì, a Palermo, nel trecentesco palazzo di piazza Marina, la claque è tutta per il segretario uscente. Il palazzo, d'altronde, una volta era la sede del tribunale dell'Inquisizione.
Arriva Giuseppe Conte, arriva la Elly Schlein, entrambi affannati a proporsi alle «toghe rosse» come alfieri delle loro rivendicazioni. Ma, applausi di cortesia a parte, è chiaro che ad Area qualunque targa di partito sta stretta, l'ambizione è giocare in proprio, rivendicare un proprio ruolo autonomo e trainante nell'opposizione al governo. Un po' come i poteri forti dell'economia (ammesso che esistano davvero) si dice che auspichino un governo tecnico come alternativa credibile alla Meloni, così Area si candida a incarnare un immaginario paese della legalità contro un altrettanto immaginario governo dell'illegalità.
A ben vedere, però, l'attacco di Albamonte e dei suoi compagni alla deriva «maggioritarista» in corso nel paese è l'altra faccia della deriva «minoritarista» di Area: in minoranza tra colleghi sempre più disincantati, in minoranza dentro il Consiglio superiore della magistratura, la corrente oggi - per bocca del suo leader - si lamenta del fatto che nel Csm consiglieri moderati sia in toga che laici facciano blocco. Che è quanto accadeva un tempo sul versante opposto, quando le nomine volute da Magistratura democratica venivano approvate con i voti decisivi dei politici di nomina comunista e diessina. Ma allora andava tutto bene.
Oggi per Area sono nel mirino del governo la Costituzione, la Corte Costituzionale, persino il presidente della Repubblica.
Nei piani del centrodestra, a partire dalla separazione delle carriere, per Albamonte c'è «una giustizia forte con i deboli e debole con i forti», asservita a un «governo che orienta le investigazioni verso stranieri, emarginati, avversari politici, e utilizza un metro più soft per i propri accoliti». Standing ovation, nel palazzo dell'Inquisizione.
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