Politica

"Trasformista e vendicativo". Le armi segrete di Giuseppi

Il primo saggio sull'era Conte. Garbato all'apparenza, è capace di imporre la sua volontà con ostinazione

"Trasformista e vendicativo". Le armi segrete di Giuseppi

Se mai dovessero concretizzarsi un «rimpasto» governativo o la nascita di un «Conte ter» non ci sarebbe da meravigliarsi. Più che alle leggi della politica lo scenario sarebbe dovuto alle doti manovriere di un presidente del Consiglio nel quale convivono vocazione autoritaria e sensibilità populista. Di lui e del suo modus operandi ha offerto un vivace ritratto Paolo Armaroli nel saggio, tanto piacevole e gustoso quanto approfondito e stimolante, dal titolo Conte e Mattarella sul palcoscenico e dietro le quinte del Quirinale (edizioni La Vela, pp. 252, euro 20). Profondo conoscitore del diritto costituzionale e parlamentare ma anche della politica politicante, l'autore rivela quale sia l'«arma segreta» di Conte, all'apparenza un «uomo garbato» che «non alza mai la voce» ma la cui volontà e ostinazione «con prepotenza» vengono fuori al momento opportuno: «Ha il dono di mimetizzarsi. Di assumere, come Zelig, le sembianze dei suoi interlocutori. Come Fregoli, si può permettere il lusso di cambiarsi d'abito di continuo. Secondo le circostanze e le convenienze. Rimanendo, tutto sommato, sempre se stesso».

Prima di quel fatidico giorno, il 23 maggio 2018, quando lo convocò al Quirinale, indicato da Di Maio e Salvini, per conferirgli l'incarico di costituire il governo, Mattarella non lo aveva mai incontrato. Come sia andato, di fatto, l'incontro nessuno ha potuto (o voluto) raccontarlo. I due erano (e sono) al tempo stesso, come fa osservare Armaroli, simili e diversi. Simili, perché entrambi «a sangue ghiaccio»; diversi perché l'uno, Mattarella, «misura le parole, le centellina e le usa come una sorta d'imperativo kantiano», mentre l'altro, Conte, «non centellina le parole» ma «parla, parla, parla» forse per «diluire il proprio pensiero», per «ridurlo a coriandoli» e «disperderlo nell'aere».

Non solo. I due rappresentavano (e rappresentano) due epoche: Mattarella appartiene alla generazione di coloro che alla politica sono pervenuti seguendo la lunga trafila, mentre Conte è sostanzialmente un homo novus, un personaggio venuto dalla società civile. L'unico tratto comune ai due è, si potrebbe dire, la conoscenza della «grammatica» giuridica. Ed è proprio questa conoscenza che fa sì che per entrambi sia stato possibile superare ostacoli in apparenza insormontabili. E fa sì, ancora, che un professore, incaricato «per caso» e quasi «a sua insaputa», sia potuto diventare per ben due volte presidente del Consiglio con l'avallo del capo dello Stato, comprensibilmente contrario all'ipotesi di elezioni anticipate troppo a ridosso dall'inizio della legislatura. Non a caso Armaroli ricorda come, nella ormai lunga storia della Repubblica, non si fosse mai visto uno scioglimento delle Camere a pochi mesi dalle elezioni politiche che avrebbe sinistramente fatto venire alla mente l'esperienza della Repubblica di Weimar.

Quello che si è venuto instaurando con i governi Conte è un «duumvirato» tra due personalità diversissime ma complementari pur se, in qualche momento, in disaccordo. All'inizio, Conte sembrò svolgere un ruolo di secondo piano, o al più di comprimario, oscurato dall'attivismo e dal protagonismo dei due vice, Di Maio e Salvini. In realtà egli, pur mal sopportando la situazione di tutela, si costruì, poco alla volta, fuori dai confini del paese, un'immagine di uomo politico affidabile a livello internazionale utilizzabile come scudo contro le intemperanze dei discoli sovranisti e populisti. E questa apertura di credito si rivelò fondamentale per garantirgli la permanenza al potere, il passaggio dal Conte uno al Conte due.

Nelle vene di Conte, grazie al suo carattere e forse anche alla sua professione, scorre un sangue che è miscela di realismo politico, abilità mediatrice, vocazione trasformistica. Il che gli ha consentito di passare con disinvoltura dalla guida di una coalizione giallo-verde a una giallo-rosso, con un rosso sempre più acceso e condizionante. Ciò approfittando, naturalmente, del suicidio politico compiuto dal leader leghista nell'estate del 2019 con l'innesco della crisi di governo. In quella occasione, peraltro, venne fuori il lato vendicativo del carattere di Conte, quello di «giustiziere», quasi novello Conte di Montecristo, del nemico Salvini costretto a sorbirsi in Parlamento una dura requisitoria.

C'è una immagine suggerita da Paolo Armaroli che coglie appieno il senso del rapporto fra Conte e Mattarella. Il primo è come Eraclito, il filosofo del divenire, il secondo è come Parmenide, il filosofo dell'essere. I due hanno un obiettivo comune; durare fino al 2023. Per l'uno si tratta di non «tirare le cuoia» e anzi di rafforzare la propria immagine politica in vista di futuri traguardi, per il secondo si tratta di evitare che una maggioranza male assortita e litigiosa possa implodere aprendo la porta a una consultazione elettorale il cui esito potrebbe rivelarsi determinante per la scelta del nuovo capo dello Stato. In sostanza, entrambi, Conte e Mattarella, Eraclito e Parmenide, sono per il «tirare a campare». Ma non è detto che la dialettica tra «divenire» ed «essere» si riveli a lungo andare un fattore di stabilità politica. Come ben si vede con l'affiorare continuo di frizioni e contraddizioni, di minacce e ricatti da parte di forze marginali della coalizione, dallo sfarinamento della maggioranza, dall'evocazione di un termine, «rimpasto», tanto in auge ai tempi della prima Repubblica nei suoi momenti di crisi.

Il libro di Armaroli ricostruisce la storia dei due governi Conte attraverso l'analisi della dialettica fra le istituzioni, segnatamente tra parlamento, governo e capo dello Stato. Sotto questo profilo, esso, prima ancora di essere un resoconto storico degli avvenimenti, è, come ben recita il sottotitolo, «un racconto sulle istituzioni». Ci si rende conto che è in atto una trasformazione strisciante del sistema politico italiano. Il tradizionale equilibrio dei poteri tra legislativo ed esecutivo viene, giorno dopo giorno, alterato a favore di quest'ultimo dalla proliferazione degli ormai famosi Dpcm emanati, al di fuori del Parlamento, direttamente dal capo del governo a causa della situazione di emergenza dovuta alla pandemia in atto. Da un punto di vista politico si potrebbe osservare - con una battuta un po' macabra ma non peregrina che la tragedia del Covid ha rappresentato per Conte una fortuna: dallo stato di emergenza gli sono infatti venuti quei «pieni poteri» grazie ai quali egli ha potuto e può governare secondo una prassi che non è più quella propria del governo parlamentare, ma si avvicina ad altri modelli nei quali il ruolo del presidente del Consiglio è preminente.

Ma, proprio questa progressiva alterazione del sistema fa sì che l'intesa fra Conte e Mattarella, fra Eraclito e Parmenide, fra il divenire e l'essere, possa venire meno incrinando quella stabilità instabile sulla quale si regge il governo.

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