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Tre innocenti al giorno finiscono in carcere. I pm si autoassolvono ma i loro errori costano 40 milioni ogni anno

Nel suo discorso di insediamento Mattarella ha puntato il dito anche "sulle decisioni arbitrarie o imprevedibili in contrasto con la certezza del diritto". Da Zamparini a Melis: ecco i casi più eclatanti di malagiustizia

Tre innocenti al giorno finiscono in carcere. I pm si autoassolvono ma i loro errori costano 40 milioni ogni anno

«I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l'Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone. Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati».

Parole del vecchio/nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel suo discorso di insediamento non ha risparmiato critiche alla giustizia, dedicando un passaggio importante agli errori giudiziari, a quelle «decisioni arbitrarie o imprevedibili» che, purtroppo, sono ancora numerose ogni anno. Così l'appello di Mattarella è un registro dei desiderata, non la proiezione della realtà, se solo nel biennio 2019/2020 le ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione sono state 1.750, con un esborso per lo Stato di oltre 80 milioni di euro. E a fronte di questa messe di provvedimenti ingiusti che lo Stato ha riconosciuto come tali, sono state promosse solo 45 azioni disciplinari contro i magistrati: di queste 7 si sono concluse con l'assoluzione, 13 con il non doversi procedere (per esempio perché il magistrato incolpato ha lasciato la toga) e 25 erano ancora in corso al momento dell'ultima relazione al Parlamento del ministero della Giustizia. Finora, insomma, per 1.750 errori conclamati, 283 dei quali non più impugnabili, non c'è stata una sola censura, un solo ammonimento: per trovarne tocca risalire al 2018, anno in cui a fronte di 509 indennizzi per ingiusta detenzione riconosciuti sono stati sottoposti ad azione disciplinare 16 magistrati, quattro dei quali censurati.

Malagiustizia e scarsa incisività dell'azione disciplinare, insomma, che giustificano, quando meno, l'opportunità del richiamo del capo dello Stato. E in fondo per capire come gli errori giudiziari non siano microscopiche macchioline in un sistema altrimenti perfetto basta scorrere le cronache. Anche quelle recenti, se appena a inizio settimana Pietro Grasso, ex presidente del Senato e già procuratore nazionale Antimafia, ha ricordato su Repubblica lo scomparso Maurizio Zamparini, ex presidente del Palermo, sostenendo che l'imprenditore era diventato «un obiettivo di chi aveva deciso che dovesse lasciare» il capoluogo siciliano, e che quell'obiettivo era stato «raggiunto anche attraverso l'azione della magistratura» che «credo ha proseguito Grasso abbia risentito dell'atmosfera che si respirava in città e che era portatrice della volontà di fargli lasciare il club». Obiettivo riuscito alla fine del 2018, con conseguenze disastrose anche per la squadra, fallita poco dopo e costretta a ripartire dalla serie D. Ma di storie ce ne sono tante, così tante che ad alcune tra le più eclatanti Stefano Zurlo ha dedicato «Il libro nero delle ingiuste detenzioni», uscito lo scorso autunno per Baldini e Castoldi, raccontando nove odissee giudiziarie di vittime della malagiustizia, scelte tra quelle delle 30mila persone che, come ricorda il deputato di Azione Enrico Costa, tra 1991 e 2020 sono finite in cella per poi vedersi assolvere o prosciogliere. Ecco dunque il caso di Pietro Paolo Melis, allevatore del Nuorese, arrestato nel 1997 da incensurato per un sequestro che non aveva commesso, condannato a 30 anni a causa di una intercettazione coperta da «un rilevante e continuo rumore di fondo» sciattamente ed erroneamente attribuita a lui dai giudici, e tornato libero solo 18 anni, sei mesi e cinque giorni più tardi, il 15 luglio 2016, quando di anni ne aveva 56. O quello di Angelo Massaro, finito dietro le sbarre dal 15 maggio 1996 al 23 febbraio 2017 perché sette giorni dopo la sparizione di un suo amico e sodale viene intercettato mentre dice alla moglie una frase in dialetto: lui dice di aver detto «muerse» (pesante), riferendosi a una pala meccanica, per gli inquirenti ha detto invece «muerte», riferendosi appunto alla morte dello scomparso. Quanto basta, insieme alle dichiarazioni de relato di un pentito, per condannarlo e buttare via la chiave fino a quando a salvarlo arriva la revisione del processo, e una nuova sentenza che, nel 2017, gli restituisce la libertà.

Non quei 21 anni rubati.

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