Triste fine di Ali, il burocrate dell'Apocalisse simbolo spietato della teocrazia

Con Khamenei finisce un mondo ma quello che nasce oggi non sarà l'Iran di Mahsa Amini

Triste fine di Ali, il burocrate dell'Apocalisse simbolo spietato della teocrazia
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Il giorno in cui è morta Mahsa Amini, massacrata di botte dai guardiani della rivoluzione islamica, il vecchio disse soltanto tre parole: uno spiacevole contrattempo. Dio non ha tempo per le miserie umane e lo stesso vale per i suoi sacerdoti. Nessuno può festeggiare per il destino amaro di quella ragazza, ma è il segno che chi disobbedisce alla legge finisce male. Sono state in tante a togliersi il velo e a testa nuda sfidare il potere. Le donne hanno pagato il prezzo più caro, ma non sono state sole. C'erano anche mariti e padri a sfilare per le strade di Teheran. La risposta dei pasdaran, coloro che vegliano, è stata lunga e mirata. Il vecchio non si è mai scomposto. È lì dai primi giorni della rivoluzione, primo consigliere del Grande Ayatollah, e capo dei pasdaran e poi presidente dell'Iran e alla morte di Khomeini regola i conti con il suo avversario Hossein-Ali Montazeri, troppo teologo e troppo mite con gli oppositori, e si prende l'anima della repubblica, come guida suprema. Era il 1989. Solo adesso sta per pagare il conto.

Allah non ha pietà per i suoi sacerdoti. L'ultimo atto è sempre una caduta. È così che finisce anche la stagione di Ali Khamenei, nel silenzio imbarazzato di chi l'aveva seguito per dovere, per paura, per fede o per calcolo. L'ayatollah si è dimesso, abbandonato dal suo stesso impero. Non è la fine dell'Iran, ma è la fine di un mondo, di una teocrazia che ha confuso Dio con il partito, la verità con la censura, la morale con il carcere. Un uomo solo nel bunker della storia, dopo essere stato l'ombra più lunga di Khomeini, il suo discepolo cerimonioso, l'esecutore testardo di volontà immaginarie. Ali Khamenei non ha mai avuto il carisma del suo maestro. Non ha avuto la voce profetica, né la teatralità. È stato un burocrate dell'apocalisse, un custode della rivoluzione contro ogni cambiamento. La sua è stata una fede armata. Ha governato con la paura. Ogni riformatore è stato annientato. È successo con Abdollah Nouri, è successo con Saeed Hajjarian, è successo soprattutto con Mohammed Khatami. E lì c'è tutta la tragedia dell'Iran moderno: la più piccola speranza soffocata nella burocrazia della teocrazia.

Era il maggio del 1997 quando Khatami fu eletto presidente. Con un plebiscito. Un'onda di giovani, di donne, di studenti che gridavano il loro diritto a una vita normale, a parole libere, a giornali veri, a innamorarsi senza il permesso dell'Imam. Khatami era la faccia buona della rivoluzione. Parlava di dialogo tra civiltà, di riforme, di apertura. Ma aveva contro il cuore oscuro del regime: il potere giudiziario, i Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, i tribunali speciali. Aveva contro soprattutto Khamenei. L'uomo che non credeva nelle mezze misure. Il capo che sapeva che ogni concessione era un passo verso il crollo. E così cominciò la restaurazione. Una per una furono chiuse le testate giornalistiche progressiste, i leader del Movimento per la Libertà in Iran furono arrestati di notte, accusati di complotto contro il regime. Furono equiparati ai Mujaheddin del popolo, trattati da terroristi. Khamenei sapeva quello che faceva. La sua idea di futuro era un presente eterno, immutabile.

Ora, con l'attacco esterno, dopo la paura vera, quella delle bombe israeliane, il vecchio Ayatollah non basta più. I tiranni non cadono quando perdono il potere: cadono quando restano soli. Sarebbe bello se il futuro avesse il volto di Masha. Non sarà, purtroppo, così.

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