Nel mondo dei sogni giallorossi cambia anche l'aritmetica: venti più cinque fa ventisei. La «moltiplicazione dei punti», che tanto ha infastidito Beppe Grillo, è impressa nel Dna del governo nascente. Ieri ai militanti cinque stelle che votavano su Rousseau, il Blog delle stelle ha fornito la bozza del programma che il Conte bis dovrebbe attuare: un documento in ventisei punti, che contengono una quindicina dei venti punti «irrinunciabili» di Di Maio e tre su cinque dei punti di Zingaretti, più altri ambiziosi e dispendiosi obiettivi.
Almeno nella scelta del linguaggio, siamo già in pieno stile Pd. Il titolo costituzionalmente scorretto «contratto di governo» di Lega-M5s, con Pd-M5s diventa un macchinoso «Linee di indirizzo programmatico per la formazione del nuovo governo». Con tanto di asterisco che rimanda a una nota in piccolo appositamente richiesta dal Nazareno: «Bozza di lavoro che riassume le linee programmatiche che il presidente del Consiglio incaricato sta integrando e definendo». Comprensibile, del resto, che il Pd non voglia cristallizzare in un documento votato dai 5s un programma che non è ancora passato per la direzione del proprio partito.
Dunque su Rousseau si vota in base a una sintesi parziale, come dicono dal Pd, anzi «una bozza avanzata, un work in progress», come specifica Gianni Cuperlo, mentre il capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci annunciava una nuova riunione con Conte proprio sul programma. E subito si è registrata la distanza dai 5 stelle, secondo cui il programma è messo in Rete è praticamente definitivo e, esulta Di Maio, «affronta tutti i punti del M5s presentati al presidente Conte».
Definitivo o meno, il programma nel merito appare estremamente sbilanciato a sinistra, com'era prevedibile. Le imprese, come fa notare l'azzurra, Mariastella Gelmini sono praticamente dimenticate, salvo vaghi auspici sul «rafforzamento dell'export» attuato «accompagnando il made in Italy» (ma dove?). C'è la «riduzione delle tasse sul lavoro» ma «a vantaggio dei lavoratori», c'è il «salario minimo» per i dipendenti e il «giusto compenso» per i non dipendenti, misure che suscitano dubbi anche tra i sindacati (a proposito: si preparino a una «legge sulla rappresentanza sindacale»), c'è «l'inasprimento delle pene per i grandi evasori e rendendo quanto più possibile trasparenti le transazioni commerciali», una «legge per la parità di genere nelle retribuzioni» tutta da esplorare e una minacciosa (per le aziende) esortazione a «concentrarsi sui modelli redistributivi che incidono sul commercio elettronico» e il solito riferimento al conflitto di interesse (che pure alligna comodamente sia tra le fila del Pd che tra quelle del M5s) condito da un chiaro riferimento anti berlusconiano, tema che unisce i due partiti, alla «riforma del sistema radiotelevisivo improntato alla tutela dell'indipendenza e del pluralismo».
I programmi sono sempre libri dei sogni, ma questo è soprattutto attento a evitare gli incubi: non c'è traccia dei temi su cui piddini e grillini si sono azzannati fino a ferragosto. C'è il taglio dei parlamentari, ma non una parola su Alitalia, Ilva, Tav e grandi infrastrutture. Scomparsa l'esortazione zingarettiana a una «appartenenza leale all'Ue» e al «pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa», che del resto sarebbe suonato ridicolo durante il voto su Rousseau, simulacro grillino della democrazia diretta. C'è l'economia verde, ma è cancellata la frase di Di Maio «basta inceneritori e trivelle».
Sul fronte opposto, quello che accontenta il Pd, la «separazione tra banche di investimento e commerciali» invocata da Di Maio viene derubricata «politiche per la tutela dei risparmiatori» e sparisce il sottile riferimento al tormentone grillino del «partito di Bibbiano», tradptto di Di Maio in norme sull'affido dei minori.
L'attacco al decreto Salvini bis, a sua volta, si limita a un «aggiornamento secondo le recenti osservazioni formulate dal presidente della Repubblica», eppure ancora ieri sera su Facebook Zingaretti trionfante parlava di «modifica radicale dei decreti sicurezza». Via, ovviamente, la flat tax resta l'eterna promessa dell'«ampia riforma fiscale» che, accostata come fa il programma alla parola «semplificazione», fa immediatamente venire l'orticaria ai commercialisti (e ai contribuenti).
Ma la vera ciliegina sulla torta è l'ultimo punto: l'impegno del governo a rendere Roma più
accogliente per turisti e residenti. È il comma «Raggi»: Virginia si era lamentata che Conte non avesse parlato del caso Roma. Per il Pd della capitale è l'ultima umiliazione: ora saranno costretti pure ad applaudire Spelacchio.
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