Cronaca nera

Uccise il padre violento. Assolto in primo grado, il pg (ri)chiede 14 anni

Secondo l'accusa non è stata legittima difesa. "È omicidio, serve il coraggio di condannare"

Uccise il padre violento. Assolto in primo grado, il pg (ri)chiede 14 anni

In primo grado era stato assolto per legittima difesa dall'accusa di omicidio volontario: il padre violento lo aveva ucciso per difendere la madre nel corso dell'ennesima lite in famiglia. Quella sentenza era stata una boccata di ossigeno per Alex Pompa, il giovane allora ventunenne che il 30 aprile del 2020 a Collegno accoltellò il genitore, Giuseppe, 52 anni, un uomo aggressivo che lo aveva costretto a crescere in un clima «traumatizzante», di tensione e di «elevatissima violenza».

Ieri per questo ragazzo mite, oggi studente modello di Scienze della comunicazione - che nel frattempo ha deciso di prendere il cognome della madre per marcare le distanze da un passato che voleva archiviare - si è riaperto un capitolo doloroso perché lo stesso magistrato che al primo processo aveva sollecitato per lui una condanna a 14 anni, in veste di procuratore generale ha rinnovato la medesima richiesta davanti alla Corte d'Assise d'appello di Torino: non si è trattato di legittima difesa, ma di un omicidio causato da una reazione «assolutamente spropositata rispetto alla situazione». Tanto che Giuseppe Pompa ha ricevuto 34 coltellate, con sei coltelli differenti, mentre era disarmato. Il ragazzo avrebbe agito d'anticipo sferrando al padre il primo colpo alla schiena. «Alex non si è difeso, ma ha aggredito», ha sottolineato il rappresentante dell'accusa.

«È chiaramente un caso che scuote le coscienze. Ma questo è un omicidio e ci vuole coraggio. Il coraggio di condannare», ha detto il pg Alessandro Aghemo. Coraggio che i giudici di primo grado non hanno avuto, considerando legittima difesa le coltellate inferte da Alex al padre in preda ad uno dei suoi frequenti scatti di ira. Uccise, sì, ma per io togati lo fece nel corso di una «lotta ingaggiata per sopravvivere».

Quella sera in casa Pompa era scoppiata una delle solite discussioni perché l'uomo aveva accusato la moglie di aver sorriso ad un collega di lavoro. I toni si erano alzati e Alex ha temuto il peggio. Visti i precedenti a cui era abituato, aveva ritenuto che il padre potesse sterminare l'intera famiglia. Dopo essersi costituito, e poi durante le indagini, spiegò agli inquirenti di aver agito per difendere la madre e il fratello, anticipando il genitore che stava andando in cucina a prendere un coltello. «Diceva che ci avrebbe ammazzati tutti», raccontò.

Il pg Aghemo non ha mai condiviso questa tesi e durante la sua requisitoria ha messo in luce le contraddizioni delle testimonianze della mamma e del fratello. Nella sua richiesta di condanna il magistrato ha applicato la riduzione di pena prevista per la seminfermità mentale. Alex, esasperato da anni di violenze e di comportamenti aggressivi, avrebbe mal interpretato l'atteggiamento del padre che di fatto non sarebbe mai andato oltre le minacce. Per il magistrato il pericolo non era attuale e Alex non avrebbe agito per difendere i familiari.

Il procuratore generale ha proposto alla Corte, come aveva già fatto in primo grado, la possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale sulle norme che impediscono il bilanciamento tra attenuanti e aggravanti: l'aggravante di aver ucciso un congiunto impedirebbe infatti di applicare le attenuanti generiche, che nel caso di Alex Pompa sono legate al fatto che il giovane ha confessato l'omicidio, chiamando lui stesso i carabinieri dopo aver colpito il padre, e al clima di violenza che si respirava in casa.

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