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Ucraina ma pro Putin. Venezia "cancella" la pianista Lisitsa

La pianista Valentina Lisitsa non suonerà il prossimo aprile alla Fenice di Venezia dove era stata ingaggiata dalla società di concerti Musikamera che affitta le belle Sale Apollinee del teatro il quale non c'entra col fatto

Ucraina ma pro Putin. Venezia "cancella" la pianista Lisitsa

La pianista Valentina Lisitsa non suonerà il prossimo aprile alla Fenice di Venezia dove era stata ingaggiata dalla società di concerti Musikamera che affitta le belle Sale Apollinee del teatro il quale non c'entra col fatto.

Il contratto è stato annullato - a proposito: vi sono penali per la recessione causa guerra russo-ucraina? - perché la concertista è nata a Kiev ma non abbraccia la causa ucraina, anzi è sempre stata molto critica contro la mancata democrazia del proprio Paese e sostenitrice, però, della Russia dove la democrazia non è mai stata moneta corrente, un paradosso. I vari antefatti sono sfuggiti oppure sono stati sottostimati da Musikamera che ha puntato dritto all'arte, Lisitsa è una buona pianista, senza vagliare il coté politico-sociale-gender della signora. E così, la società della Serenissima è stata bombardata da una carica di tweet velenosi. «Questa è Valentina Lisitsa e pare che stia per fare un concerto al prestigioso Teatro La Fenice di Venezia. È conosciuta per le sue posizioni pro Putin e ha perfino fatto un concerto in maggio nella Mariupol occupata» è stato il tweet di partenza che ha originato la valanga di insulti all'associazione. E via con le scuse e la cancellazione dell'appuntamento, un po' come accadde in aprile negli Usa quando la Pasadena Symphony, pungolata, prima chiarì che non avrebbe rimosso dalla stagione il concerto della Lisitsa poiché un tempo aveva manifestato il suo filoputinismo ma da anni i suoi social media erano devoti alla musica e punto. Poi la pressione aumentò e la pianista venne sostituita con il pretesto che il manager aveva fornito false informazioni.

Correva il 1991 quando la Lisitsa lasciava Kiev dove era nata diciotto anni prima. Quando la incontrammo a Milano nel 2014, anno di annessione della Crimea da parte della Russia, le chiedemmo da che parte stava. Spiegò che i genitori erano Russi ma 50 anni prima si erano trasferiti nelle terre ucraine concesse come incentivo, «ce ne siamo andati senza rimettervi piede. C'erano tante aspettative per il nostro Paese, euforia pura. Poi ci imbattemmo nella corruzione politica, la gente moriva in nome della trasparenza. Che carriera avrei potuto sviluppare in una terra di povertà e desolazione? In Ucraina non s'è vista democrazia, ma solo oligarchia: persone nel clan di Yanukovich figurano tra le 27 più ricche di Londra. La cosa spiega tutto», dichiarò.

Lisitsa un po' come i ballerini Sergei Polunin e Svetlana Zakharova, ha lasciato un Paese incapace di fornire trampolini di lancio, se ne è andata con rabbia differentemente da Zakharova che tentò più volte di ricucire i rapporti con la madre patria, ma mai le venne perdonato il fatto di aver abbracciato la causa russa.

L'affair veneziano entra nella cornice della russofobia e della cultura della cancellazione, di posizioni assunte senza indagare cosa si muove dietro le quinte di tante decisioni. È questo un caso in cui «La ragione e il torto non si dividono mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro».

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