Politica

Le urne anticipate spaventano il Pd e Zingaretti strappa la tregua armata

Il segretario evoca la «destra peronista» e congela così la possibile scissione

Le urne anticipate spaventano il Pd e Zingaretti strappa la tregua armata

Si spengono (per il momento) i fuochi di guerriglia nel Pd, e si allontana l'idea di una «scissione concordata» per dare al centrosinistra quella gamba di centro che ora manca.

Sei lunghe ore di riunione della Direzione dem, nell'afa romana, servono a Nicola Zingaretti per sancire una nuova pace interna con le minoranze, dopo gli scontri virulenti degli ultimi giorni sul caso Lotti. Una sorta di armistizio, silenziosamente benedetto anche da Matteo Renzi, che non ha partecipato alla riunione ma avrebbe avallato la ricucitura. Sullo sfondo incombe l'ombra delle possibili elezioni anticipate: sono stati i Cinque Stelle, spaventatissimi, a far arrivare al Nazareno il loro allarme: «Salvini vuol far saltare tutto entro luglio, ci manda al voto». Un tentativo disperato di sondare la possibilità di una sponda Pd per evitare il precipizio e la probabile decimazione elettorale delle truppe grilline. E qualche esponente Pd, preoccupato, segnala che la relazione del segretario, in alcuni passaggi «ambigua», non esclude del tutto la possibilità: Zingaretti ha infatti indicato al suo partito il nemico da battere, il «pericolo» da sventare: «Siamo di fronte a una possibile egemonia di un blocco di forze illiberali», spiega, perché «il vento soffia ancora forte nelle vele della destra di Salvini, tanto più dopo il suo viaggio in Usa. Una destra anche peggiore del peronismo». Mentre tra i suoi alleati regna «uno stato confusionale, con la totale subalternità dei grillini». Insomma, in caso di rottura della maggioranza, il Pd avrebbe un ruolo importante da giocare, in Parlamento e nel paese. «Bisogna stare pronti», avverte. Se sia un modo per aprire davvero a possibili accordi parlamentari, o piuttosto per ricompattare il partito davanti ad un avversario comune in caso di elezioni, non è chiaro. «Zingaretti non è stato netto nell'escludere possibili manovre anti-voto. Ma il sentiero di un accordo con i grillini in questa legislatura resta strettissimo: i numeri sono troppo risicati», dice un dirigente di primo piano. Insomma, basterebbe la defezione di una manciata di parlamentari dem e tutto salterebbe.

La pacificazione con i renziani è stata sancita dall'intervento di Lorenzo Guerini, che con Luca Lotti guida la corrente dialogante: dopo aver riaffermato la «vocazione maggioritaria del Pd», ha assestato un colpo (in perfetta sintonia con quanto detto da Zingaretti) alla «strategia dell'alchimista di chi vuol costruire in vitro partitini simili al partito dei contadini dei regimi dell'Est». Un colpo a Carlo Calenda, che ha più volte evocato la necessità di creare un partito liberale di centro da alleare al Pd, e indirettamente a Paolo Gentiloni che viene dipinto come l'ispiratore di questa ipotesi. Anche Gianni Cuperlo attacca: «Non si può fare una scissione in franchising», ironizza. E Goffredo Bettini attacca l'ex ministro: «Calenda dice che ha fatto votare il Pd, ma il Pd ha fatto votare per lui». E Zingaretti chiosa: «Tocca al Pd contrastare l'egemonia di una destra peronista, senza appaltare ad altri questo compito». In ogni caso, il Pd sta lavorando a Strasburgo perché Calenda abbia l'incarico prestigioso di presidente della commissione Industria del Parlamento europeo, incarico difficilmente compatibile con quello di fondatore di un partito.

L'intervento più duro sul caso Lotti lo pronuncia la renziana Alessia Morani, che accusa la direzione di aver «rimosso» il tema e compagni di partito di aver fatto «un processo sommario contro Luca, più ancora degli avversari politici: un atteggiamento francamente inammissibile».

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