La variabile petrolio: cosa può succedere

I vantaggi di Mosca, le manovre correttive di Washington e Pechino se il conflitto si prolunga e gli effetti sulle bollette per i consumatori italiani

La variabile petrolio: cosa può succedere

l Governo di Tel Aviv ha avviato un ampio attacco contro il regime iraniano, colpendo decine di obiettivi in un'operazione che spinge la regione in una nuova fase conflittuale dagli esiti ancora incerti e apre alla possibilità di un impatto significativo sui mercati energetici.

Non sorprende pertanto che il premio geopolitico sul Brent abbia già raggiunto i 10 dollari, secondo i calcoli di JP Morgan. Effettivamente le infrastrutture energetiche iraniane sono state colpite per la prima volta, sabato scorso dalle IDF. Ma, il bersaglio più grande e più facile, l'isola di Kharg, non è stato ancora toccato. L'impressione è che Israele stia colpendo depositi di carburante interni, raffinerie e reti di distribuzione per destabilizzare ulteriormente l'economia e il regime iraniani, risparmiando i terminal destinati all'export di greggio e derivati proprio per evitare un'escalation dei prezzi. A tal proposito va evidenziato come eventuali dinamiche capaci di spingere significativamente il prezzo del petrolio (e quindi l'inflazione) verso l'alto andrebbero comunque a scontrarsi con la priorità politica dell'amministrazione Trump, che punta a mantenere bassi i prezzi energetici per compensare l'effetto inflazionistico dei dazi ma anche con le necessità del Governo di Pechino di importare oro nero a basso prezzo. Uno scenario di prezzi del petrolio in rialzo incontrerebbe invece il favore di Mosca costantemente alla ricerca di entrate per finanziarie l'economia di guerra. Tuttavia, considerata la natura ancora fluida degli sviluppi e il potenziale effetto domino dell'attacco, non possiamo oggi tracciare conclusioni definitive.

A oggi sono tre gli scenari in grado di incidere in maniera drastica sui mercati energetici mondiali.

Attacco di Tel Aviv alle infrastrutture iraniane. L'Iran oggi produce 3,2 milioni di barili al giorno di greggio, esportandone 1,8 cui si sommano 350 mila barili giornalieri di prodotti raffinati. La produzione si è progressivamente ripresa dal minimo di 1,7 milioni di barili al giorno di greggio toccato nel 2021, pur restando sotto il picco di quasi 4,0 del 2017-2018. Le esportazioni di greggio, seppur salite a 1,8 milioni di barili al giorno sono ancora inferiori di 1 milione di barili al giorno rispetto ai massimi di maggio 2018, ma quasi raddoppiate rispetto ai livelli di inizio 2022. Sul fronte dei prodotti raffinati, le esportazioni sono attualmente inferiori di 310 mila barili al giorno rispetto al picco di maggio 2024.

Ad oggi, circa 148 navi che trasportano petrolio iraniano sono sotto sanzioni USA, pari a 1,03 milioni di barili al giorno di greggio, ovvero al 65% dell'export totale iraniano nel 2024. Di queste, 51 navi appartengono alla compagnia statale NIOC, che ha movimentato 700 mila barili al giorno lo scorso anno, mentre le restanti 97 navi sanzionate risultano di proprietà non iraniana. L'Iran dispone di una capacità di raffinazione domestica di 2,2 milioni di barili al giorno di greggio e di ampie infrastrutture di esportazione, con il principale terminal petrolifero situato sull'isola di Kharg, nel Golfo Persico. Tuttavia, come detto, un attacco israeliano diretto a tali asset risulterebbe difficilmente accettabile per l'amministrazione statunitense, che intende evitare shock diretti sui mercati petroliferi.

Chiusura dello Stretto di Hormuz per mano del regime di Teheran. Rappresentanti del regime iraniano hanno già ventilato la temuta chiusura dello Stretto di Hormuz. Uno snodo cruciale attraverso cui transitano attualmente 21 milioni al giorno di greggio e derivati (pari al 30% del commercio marittimo globale di petrolio) e il 20% della fornitura mondiale di GNL. Pur riconoscendo la vulnerabilità logistica dell'area, il rischio di una chiusura totale dello stretto rimane basso, anche in uno scenario di escalation. Storicamente Teheran non ha mai chiuso il passaggio, consapevole dell'alto costo economico e geopolitico che ne deriverebbe. Chiudere lo Stretto implicherebbe infatti: violare gravemente le norme internazionali e minacciare direttamente gli interessi economici dei partner del Golfo. L'Arabia Saudita esporta la maggior parte del suo petrolio via Hormuz, anche se una quota può essere dirottata su pipeline terrestri.

L'Iraq è esposto per l'85% del proprio export. Kuwait, Qatar e Bahrain dipendono totalmente dallo Stretto. Last but not least, la chiusura compromettere i rapporti commerciali con i principali clienti asiatici in particolare la Cina che assorbe circa il 90% del greggio iraniano. La chiusura dello stretto di Hormuz potrebbe essere stata ventilata per spingere Washington a far pressione su Tel Aviv. Al momento osserviamo comunque un rallentamento dei flussi marittimi attraverso Hormuz, con conseguente impennata dei premi assicurativi. Il costo per assicurare un viaggio VLCC (Very Large Crude Carrier) dall'Arabia Saudita a Rotterdam è aumentato di circa 450.000 dollari, mentre alcuni assicuratori hanno sospeso temporaneamente il rilascio di nuove polizze. Insomma chiusure Hormuz rappresenterebbe per Teheran l'extrema ratio. L'Iran potrebbe adottare misure meno drastiche, come disturbare la navigazione commerciale nel Golfo Persico. Va però ricordato che anche durante la cosiddetta Tanker War degli anni '80, quando tra il 1984 e il 1987 vennero attaccate 259 petroliere, le esportazioni di greggio del Golfo non subirono blocchi sistemici, né si assistette a un'impennata duratura dei prezzi mondiali del petrolio.

Attacco iraniano alle infrastrutture dei Paesi del Golfo. L'Iran potrebbe anche valutare attacchi mirati agli impianti di raffinazione e logistica dei paesi del GCC pari a circa 6 milioni di barili al giorno. Sebbene il precedente degli attacchi Houthi del 2019 contro Abqaiq e Khurais in Arabia Saudita sia ancora presente nella memoria del mercato, rimane bassa la probabilità di un'escalation diretta su larga scala, anche in virtù dei recenti miglioramenti diplomatici tra Arabia Saudita, Emirati e Teheran, favoriti dalla mediazione cinese.

Impatto sull'Italia. Benché a oggi improbabile, lo scenario di escalation dei prezzi energetici non potrà più essere accantonato dagli operatori e quindi dovrà continuare a essere scontato sul prezzo di gas e petrolio.

Nel caso in cui uno dei tre scenari illustrati si verificasse, una replica di quanto avvenne nel marzo 2022, dopo l'invasione russa dell'Ucraina, sarebbe plausibile, con il Brent in accelerazione verso quota 120-130 dollari al

barile. Per l'Italia, che importa circa il 90% del suo fabbisogno petrolifero, l'impatto sarebbe rilevante: un prezzo del greggio sopra i 100 dollari potrebbe infatti portare a una contrazione del Pil tra il -0,3% e il -0,5%.

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