
La politica spesso è un palcoscenico dove tutti hanno bisogno di un nemico. La storia che sta andando in scena a Cambridge, prestigioso quartiere di Boston, è anche questo. È il braccio di ferro, reale e simbolico, tra il presidente degli Stati Uniti e l'università di Harvard. È lo scontro tra democrazia populista e aristocrazia intellettuale, solo che non tutto va dato per scontato, perché i torti non sono da una sola parte. Donald Trump, con una certa beffarda soddisfazione, continua a provocare. «Sto valutando l'idea di togliere tre miliardi di dollari di finanziamenti a una Harvard fortemente antisemita e di destinarli alle scuole professionali. Che ottimo investimento sarebbe per gli Stati Uniti!». I bostoniani si fingono preoccupati, ma si compiacciono di indossare la bandiera anti trumpiana. L'America profonda se ne frega di tutto questo, ma la resistenza contro il presidente è una di quelle cose da raccontare ai nipoti. Harvard come baluardo del «pensiero pulito», quello che non imbarazza e piace ai «padri pellegrini».
Le università sono sacrari della libertà di pensiero e il potere deve restarne fuori, senza minacciare tagli di fondi pubblici. Qui si apre però una questione: cosa accade se i grandi atenei per conformismo o pigrizia mentale o per un comunque pericoloso ruolo di polizia delle idee si mettono a censurare tutto ciò che appare scomodo o non ortodosso? Non è solo una risposta intollerante verso gli intolleranti, perché il limite a Boston e dintorni viene fissato molte e molte miglia dentro i confini della democrazia. Non si zittiscono i nazisti ma semplicemente tutti quelli che non seguono la dottrina ufficiale. Cosa accade quindi se Harvard si risveglia puritana? È quello che svela il report 2025 del College Free Speech Rankings, firmato da FIRE e College Pulse, autorevoli ma vicini ai conservatori. Racconta di studenti che tacciono per paura, di professori che evitano i temi scomodi, di amministrazioni universitarie che non difendono il diritto a essere impopolari. Non è una storia nuova, ma ora ha numeri, nomi, tendenze. Il 17% degli studenti dichiara di non sentirsi libero di parlare almeno un paio di volte a settimana. Il 54% dice che non si può discutere in modo aperto del conflitto israelo-palestinese. Il 32% trova accettabile l'uso della violenza, liberal, per impedire un discorso. Aumentano i casi di censura, le proteste che diventano interdizione, gli inviti ritirati, le piattaforme negate. La parola, in troppe università, è un privilegio da concedere solo a chi la pensa nel modo corretto.
Il risultato è che le università pubbliche sono più tolleranti dei santuari della Ivy League. In cima ci sono atenei pubblici come la University of Virginia, Florida State, Michigan Tech. In fondo, come zavorre di una cultura che ha rinunciato alla tolleranza, troviamo Harvard, Columbia, NYU, Penn, Barnard. La mappa dei campus rivela un paradosso: più un'università è blasonata, più sembra incapace di difendere la libertà di parola.
Harvard, per il secondo anno consecutivo, è l'ultima della lista. Harvard, la spada della libertà usata per censurare. È il paradosso su cui Trump sta costruendo la sua beffarda, e forse pericolosa, battaglia dei pennacchi.