La vera trattativa fu quella tra pm e mafia

È necessario porsi una domanda, per capire se il dilemma sulla trattativa tra Stato e mafia non sia stato fuorviante

La vera trattativa fu quella tra pm e mafia
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E se la vera trattativa non fosse stata quella tra la mafia e lo Stato ma tra la mafia e la magistratura siciliana? È questa la domanda che viene sollevata dalla inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla morte di Paolo Borsellino, ucciso insieme alla sua scorta il 19 luglio 1992. É l'indagine che ha portato sul registro degli indagati due ex magistrati eccellenti, Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli, entrambi pm a Palermo quando furono uccisi Borsellino e - prima di lui - Giovanni Falcone. Pignatone e Natoli sono accusati di favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa Nostra e dei due grandi manager del Nord, Raul Gardini e Lorenzo Panzavolta che - in questa ricostruzione - erano gli interlocutori privilegiati dei Corleonesi nel business degli appalti. Già questo basterebbe, a dispetto del tanto tempo passato, a guardare con interesse agli sviluppi dell'inchiesta della procura di Caltanissetta, soprattutto dopo l'incredibile decisione di Natoli e Pignatone di non rispondere alle domande dei colleghi che li indagano. A rendere tutto ancora più scottante c'è un dato: di fatto oggi vengono proposte due verità giudiziarie opposte e inconciliabili su uno dei periodi più drammatici della storia del paese, le stragi del 1992 e 1993. Alla ostinazione con cui da decenni viene offerto, senza alcuna prova e a dispetto di ogni logica, il famoso teorema della trattativa Stato-Mafia, la nuova inchiesta risponde - con elementi semplici e concreti - indicando nel coacervo di interessi affaristici e criminali che dominava Palermo in quegli anni il vero movente della strage di via D'Amelio; di quel coacervo di interessi Pignatone e Natoli furono, dice la nuova inchiesta, strumenti consapevoli.

Se questa è la pista giusta, allora bisogna dedurne che un altro pezzo di magistratura (in larga parte poi passata in politica, e seduta oggi in Parlamento nei banchi dei 5 Stelle) ha raccontato fandonie al Paese, e che continua a farlo. Sì, perchè il teorema che indicava nei patti scellerati e triangolari tra mafia, politica e carabinieri il segreto che Borsellino stava per scoprire, e che gli sarebbe costato la vita, continua ad essere sventolato ancora oggi. Non sono bastate le sentenze della Cassazione che hanno assolto uno dopo l'altro gli uomini dell'Arma e della politica (Calogero Mannino e Marcello Dell'Utri in primis) indicati come architravi di quel patto. Come se niente fosse, come se quelle assoluzioni non contassero nulla, ancora due mesi fa la Procura di Firenze ha nuovamente iscritto nel registro degli indagati il generale Mario Mori, un'eroe della lotta a Cosa Nostra, per «strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell'ordine democratico». Una follia che è la degna conclusione di tutte le altre follie viste in questi anni (sono gli stessi pm che accusavano Silvio Berlusconi di avere organizzato l'attentato al suo amico Maurizio Costanzo, tanto per dire).

Se raffiche di assoluzioni non sono bastate a archiviare questi deliri, ora si può sperare che riesca nell'impresa l'indagine di Caltanissetta.

L'inchiesta del procuratore Salvo De Luca nasce nel modo più limpido che si possa immaginare, grazie all'impegno del legale dei figli di Borsellino, Fabio Trizzino. Già nel 2000, una vita fa, la strada che porta a Pignatone era stata tentata dalla procura di Caltanissetta senza successo. Ora, però, ci sono elementi concreti.

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