
Donald Trump ama enumerare gli accordi di pace che sostiene di aver stipulato da quando siede nello Studio Ovale, sette come riferito nel suo discorso all'Assemblea Generale Onu. Sono due, però, quelli che sino ad ora gli sono sfuggiti, e che influiranno maggiormente sulla sua eredità e sul tentativo di ottenere il premio Nobel per la pace. La guerra tra Russia e Ucraina, che non è più vicina alla conclusione ora di quanto lo fosse quando il presidente Usa è entrato in carica a gennaio, e poi il conflitto tra Israele e Hamas a Gaza, che invece sembra ad una svolta.
"Questo è un grande giorno. Siamo molto vicini a raggiungere la pace in Medio Oriente", esulta il tycoon, prima di sottolineare con un po' di prudenza: "Vediamo cosa succede, dobbiamo mettere nero su bianco la parola finale". The Donald ha subito mandato in Egitto il suo inviato Steve Witkoff e il genero Jared Kushner per definire i dettagli del rilascio degli ostaggi e discutere il piano Usa per la fine della guerra. D'altronde il Medio Oriente è un teatro estremamente complesso, e da quando il presidente Harry Truman ha riconosciuto lo Stato ebraico nel 1948, quasi tutti i presidenti hanno cercato di instaurare relazioni pacifiche tra Israele e i suoi vicini arabi, ma i conflitti si sono ripresentati ripetutamente.
Nel 1974 Richard Nixon, negli ultimi giorni della sua travagliata presidenza, cercò di consolidare il successo dell'amministrazione nel contribuire a porre fine alla guerra dello Yom Kippur del 1973. Come segretario di Stato, la pionieristica "diplomazia navetta" di Henry Kissinger pose fine a quella guerra, ma nessuno dei due riuscì a costruire una pace. La firma degli accordi di Camp David tra Israele ed Egitto nel 1978 sotto gli auspici di Jimmy Carter segnò finalmente un cambiamento nello scacchiere regionale (istituendo un'autorità di autogoverno in Cisgiordania e a Gaza), ma il piano fallì, perché tenne i palestinesi fuori dall'accordo. Il tentativo più concreto di arrivare alla pace prese forma con una serie di colloqui segreti che gettarono le basi degli accordi di Oslo del 1993: i colloqui nella capitale norvegese videro il primo storico riconoscimento reciproco tra Israele e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, sancito dalla stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat alla Casa Bianca davanti al presidente Bill Clinton. Ma anche quella si rivelò poi un'occasione perduta. Oggi, tuttavia, si potrebbe essere giunti ad una svolta.
"Se non ora, quando?", afferma Richard Goldberg, che ha fatto parte dello staff del Consiglio di Sicurezza Nazionale durante il primo mandato di Trump. E persino diversi detrattori del tycoon pensano che la nuova posizione di Hamas potrebbe rappresentare un passo incoraggiante verso la fine della guerra. Un altro discorso è poi se questo lo porterà alla conquista dell'agognato Nobel. Pur se il comandante in capo riuscisse dove i predecessori hanno fallito, creando le condizioni affinché palestinesi e israeliani possano convivere pacificamente, ottenere il riconoscimento non sarebbe un'impresa semplice. Membri di entrambi i partiti hanno criticato l'attuale amministrazione per aver lanciato attacchi mortali contro presunte navi della droga straniere, e sebbene abbia abbracciato il titolo di "presidente della pace", The Donald ha appena ribattezzato il dipartimento della Difesa in dipartimento della Guerra.
Secondo altri, invece, i giudici del Nobel per la Pace farebbero fatica a sfidare un inquilino della Casa Bianca che ha finalmente mediato un accordo di pace in Medio Oriente. E per l'ex speaker repubblicano della Camera Newt Gingrich, "sarà interessante, se ci riuscirà, vedere come il comitato per il Nobel riuscirà a ignorare il fatto che l'abbia fatto lui".