Vietnam Pd, la fronda attacca: "Ci caccia soltanto l'esercito"

Bersani e Speranza reagiscono al coro della Leopolda: vogliamo restare. Il premier: non butto fuori nessuno

Vietnam Pd, la fronda attacca: "Ci caccia soltanto l'esercito"

Ormai è guerra dichiarata. Il Pd conosce il suo Vietnam, che ha la prima linea alle porte di Firenze, roccaforte del generale Renzi, il leader indiscusso dalla maggioranza (ovviamente renziana), ma indigesto a una riottosa minoranza che proprio non ci sta a unirsi al coro dei corifei del Sì referendario e del nuovo «modernissimo» Italicum, cavallo di Troia per far accettare proprio il nodo referendario. Che si sia ormai di fronte a uno scenario bellico lo dice un ex segretario del Pd. Pier Luigi Bersani non digerisce i cori di «Fuori, fuori!» lanciati al suo indirizzo nella giornata finale della Leopolda. «Per cacciarmi dal Pd - commenta Bersani, non basta una Leopolda. Ci vuole l'esercito». Su quei cori, «inopportuni» (secondo i più diplomatici tra i renziani) e «provocatori» (a detta dei rappresentanti della sinistra del partito) è guerra aperta. «Il Partito democratico - aggiunge da Palermo Bersani - prende la piega di un partito che cammina su due gambe: arroganza e sudditanza. Ma su queste due gambe un partito di sinistra e riformista non può andare avanti», con o senza la vittoria referendaria.

Come Bersani, anche Roberto Speranza sfrutta termini propri della guerra per descrivere questa incresciosa situazione. «Non mi allontaneranno da qui nemmeno a cannonate». E già pensa, lo stesso Speranza, a chi potrebbe sostituire Renzi alla guida del partito («bisogna rifare il centro-sinistra con la barra sulle questioni sociali»).

Anche i toni delle risentite repliche della minoranza non piacciono e vengono bollati come «inopportuni». La più graffiante è Debora Serracchiani. «Bersani non stravolga la realtà ed eviti polemiche fuori luogo: Renzi non ha mai detto fuori a nessuno. Da chi è stato segretario del nostro partito ci aspettiamo compostezza e proporzione anche nella dialettica più aspra». Le fa eco un altro renziano di ferro, il sottosegretario all'Istruzione Davide Faraone. «Le dichiarazioni di Bersani - dice Faraone - confermano che lui non parla del referendum. Spieghi piuttosto perché voterà No quando ha detto Sì per 6 volte in Parlamento». «Quella di Bersani - aggiunge Lorenzo Guerini - è una posizione strumentale» che non spiega l'incoerenza delle parole di oggi coi voti dati alla Camera. Bersani, evita di sciogliere il paradosso, ma continua a bocciare la Riforma Boschi che avrebbe «tanti difetti». Ma, aggiunge, «la cosa che mi preoccupa di più è l'incrocio con la legge elettorale». Incrocio che è stato al centro della mediazione fatta da Gianni Cuperlo. La sua firma sull'accordo con la maggioranza è passata sotto silenzio nei discorsi finali alla Leopolda ma è l'humus su cui è cresciuto il mal di pancia della minoranza. Tanto che in serata è costretto a dire la sua. «Ho sottoscritto il documento che rivede la legge elettorale - spiega - per ridurre la distanza almeno sulle regole della rappresentanza. Vedo però che questa fatica si colloca all'opposto di chi urla fuori fuori verso un pezzo del Pd.

Se il filo dell'unità si dovesse spezzare sarebbe Renzi a doversene assumere la responsabilità. «Il segretario è lui», conclude Cuperlo. E Matteo Renzi prova a smorzare i toni: «Noi non cacciamo nessuno». Ma ricorda che la vecchia guardia «ha fallito»

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