Volodymyr Zelensky tenta di rompere il ghiaccio con Xi Jinping o di vedere il suo bluff, dipende dalle scuole di pensiero. Il presidente ucraino, che da settimane se non da mesi sente ribadire a parole l'intenzione del suo collega cinese di svolgere un ruolo attivo per favorire la pace tra il suo Paese e la Russia, ha invitato Xi a Kiev: «Voglio parlare con lui», ha detto semplicemente. Questa diretta semplicità rende manifesta la volontà di Zelensky di interrompere un percorso ambiguo intrapreso dalla diplomazia cinese, nel quale alle promesse di mediare imparzialmente tra Mosca e Kiev si contrappone il dato di fatto di un'evidente vicinanza alla parte in causa russa: nessuna condanna dell'invasione e della devastazione dell'Ucraina indipendente nonostante la ribadita fedeltà al principio del rispetto dell'integrità territoriale di ogni Paese e lo squilibrio tra il rapporto anche personale di Xi con Vladimir Putin appena cementato da una visita di tre giorni a Mosca e il mancato mantenimento anche solo della promessa di una telefonata al presidente dell'Ucraina.
Difficile credere che il pragmatico Zelensky si aspetti qualcosa di concreto dai cinesi, ma la sua mossa ha comunque un'importanza. Non solo perché costringerà Pechino chiamata in causa così esplicitamente al più alto livello politico - a una reazione, a fare qualcosa di più del solito traccheggiare cui ci ha abituati in queste settimane. Ma anche perché finalmente il famoso piano di pace in dodici punti proposto dalla Cina potrebbe essere messo alla prova dei fatti verosimilmente per sentirsi dire in faccia da Zelensky che per lui è poco più che carta straccia, ma comunque apprezzabile come punto di partenza per discussioni più serie. Va inoltre ricordato che le relazioni bilaterali tra Pechino e Kiev hanno una propria autonoma rilevanza, fondata in primo luogo sull'interscambio economico: la Cina è a tutt'oggi (e di gran lunga) il principale partner di Kiev a livello mondiale.
La mossa di Zelensky cade in una settimana in cui anche l'Europa sta giocando con la Cina proprie carte in qualche modo connesse con la guerra di Putin in Ucraina. Anche qui, come nel rapporto più figurato che sostanziale tra Kiev e Pechino, la Cina più che svolgere un ruolo da protagonista viene cercata. Le visite a Pechino di Ursula von der Leyen e di Emmanuel Macron hanno al tempo stesso significato politico ed economico. In una fase in cui Xi e Putin confermano la loro «illimitata alleanza» e la loro volontà di forgiare un asse globale alternativo a quello dell'Occidente per sfidarne l'egemonia, gli europei cercano di interagire con Pechino. A Bruxelles e nelle principali capitali europee sanno bene che il leader cinese deve barcamenarsi tra le sue pericolose ambizioni geopolitiche e la necessità assoluta di continuare a fare affari con l'Occidente. In parole povere, Xi ha bisogno dei nostri soldi per mantenere la pace sociale in Cina, e quindi la sua sfida geopolitica è limitata da questa costante urgenza: qui si apre lo spazio per un'azione politica, che deve però evitare l'ambiguità.
Queste missioni a Pechino, con il loro pragmatismo interessato, prestano il fianco a critiche anche sferzanti. Già in passato le strizzate d'occhio a Xi Jinping mentre era in corso la brutale repressione dei diritti umani e politici in Tibet e a Hong Kong (oltre a quella, implacabile e costante, nella stessa Cina) non hanno fatto che incoraggiare il leader cinese a indurire le sue posizioni e a confermare una strategia di sfida nei nostri confronti, alimentata dal fiume dei nostri denari.
E oggi che Xi se ne sta alla finestra a vedere se Putin uscirà vincitore dal folle risiko ucraino prima di lanciarsi su Taiwan, presentarsi dal migliore amico di un ricercato dalla Corte dell'Aja per crimini di guerra obiettivamente disturba. A meno che non si colga l'occasione per richiamare Xi a un senso di responsabilità e per ricordargli che anche noi in Ucraina abbiamo imparato due o tre cosette importanti.
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