Pomigliano, Marchionne si scaglia sul sindacato: "Hanno scioperato solo perché giocava l'Italia"

Il numero uno del Lingotto infuriato: "Ci prendono per i fondelli". Poi avverte: "La Fiom vuol rinunciare a un piano da 20 miliardi, se continua così ammazzerà l’industria italiana". Il paradosso: "Per portare un'auto in Italia oggi bisogna parlare con 12 persone: è incredibile"

Pomigliano, Marchionne si scaglia sul sindacato: 
"Hanno scioperato solo perché giocava l'Italia"

Sergio Marchionne si è stufato. E non riesce a capacitarsi di come, davanti a 20 miliardi di investimenti, che permetteranno al gruppo Fiat di fare in pochi anni dell’Italia un grande polo automobilistico, certi sindacati e uomini politici siano ancora legati «a storie vecchie di 30, 40 e 50 anni fa e a cose, come il padrone contro il lavoratore, che non esistono più». Alla vigilia del referendum tra i 5.200 dipendenti Fiat di Pomigliano d’Arco, l’amministratore delegato del Lingotto si sfoga e pone un problema preciso: «Se vogliamo uccidere l’industria italiana lo si dica, e lo facciamo».

Il numero uno della Fiat, negli ultimi giorni, è stato alla finestra, assistendo pazientemente, in silenzio, agli sviluppi seguiti all’accordo separato con i sindacati sulla riorganizzazione del lavoro a Pomigliano. Ma ieri ha perso le staffe: «Stiamo cercando di portare avanti un progetto industriale italiano che non ha equivalenti nella storia dell’Europa. E non conosco in Europa - ha detto Marchionne riferendosi all’impianto in Polonia e alla scelta di realizzare in Campania la futura Panda - nemmeno un’azienda che ha avuto il coraggio ed è in grado di spostare la produzione da un Paese dell’Est di nuovo in Italia». Quello lanciato dal top manager, a margine della cerimonia del conferimento del Master honoris causa a Mario Draghi, è proprio l’ultimo avvertimento: «Il mondo è cambiato e allora: o decidiamo di competere veramente a livello internazionale o, altrimenti, l’Italia non avrà un futuro a livello manifatturiero». Il braccio di ferro continua e la Fiom, nel continuare a ritenere «illegittimo» il piano Fiat per Pomigliano, invitando i lavoratori napoletani a votare «no» martedì prossimo, non si rende conto che se anche dovesse riuscire a vincere la sfida al termine delle consultazioni, il successo si trasformerebbe subito dopo in una gravissima sconfitta. È chiaro, infatti, e lo stiamo scrivendo da giorni, che il test di Pomigliano per l’amministratore delegato del Lingotto ha una valenza nazionale. Senza la stragrande maggioranza dei «sì» (almeno l’80%) il progetto «Fabbrica Italia» salta, gli operai di Pomigliano si presenteranno il 27 di ogni mese a chiedere lo stipendio alla Fiom e, come ha sottolineato l’osservatore Stefano Aversa, presidente di AlixPartners, proprio da queste pagine, «a pagare per tutti sarà alla fine lo Stato, cioè i suoi contribuenti». «Non mi riconosco - ha aggiunto Marchionne - nei discorsi che vengono fatti dalla Fiom. Io sono orgoglioso di essere italiano e se la Fiat non avesse voluto bene all’Italia non avrebbe mai fatto una mossa simile: 20 miliardi di investimenti e il raddoppio della produzione. E invece che cosa succede? Si parla di un affronto alla Costituzione italiana. Ma stiamo scherzando?».

Il capo operativo del Lingotto, orgoglioso di essere italiano e allo stesso tempo abituato a ragionare con il fuso orario americano, è l’uomo che è riuscito a portare a casa la Chrysler a zero dollari, il top manager che dopo aver resuscitato la Fiat sta facendo altrettanto con il gruppo Usa. Unica differenza: a Detroit, nel giorno in cui le linee di montaggio hanno sfornato il nuovo Jeep Grand Cherokee, gli operai della Chrysler gli hanno tributato un applauso; a Pomigliano (e non solo) il piano di rilancio produttivo del Paese, una scommessa sicuramente non facile, ha invece acuito divisioni e lotte politico-sindacali, riesumando logiche del passato. «O si lavora seriamente - ha tagliato corto Marchionne - o la Fiat non è interessata». Per Marchionne, infatti, vale lo schema americano (Uaw) o quello tedesco (Ig Metall): «Abbiamo bisogno di un solo interlocutore con cui parlare; anche il fatto che i nostri operai si siano divisi in gruppetti dà fastidio e non è la cosa più efficiente. Se per portare una macchina in Italia occorre parlare con 10-12 persone non è possibile procedere. È una cosa incredibile, mai vista altrove».

A mandare su tutte le furie il top manager è stato anche lo sciopero, indetto lunedì scorso a Termini Imerese, la fabbrica Fiat che chiuderà il 31 dicembre 2011, in coincidenza con la prima partita ai Mondiali degli azzurri («l’azienda avrebbe comunicato ai dipendenti che i maxischermi concordati non sarebbero stati allestiti così come negli altri stabilimenti del gruppo», questo il motivo dello stop). «Cerchiamo di smetterla di prenderci per i fondelli - ha tuonato Marchionne - perché come lo fanno in Sicilia, lo hanno fatto a Pomigliano e in tutti gli altri impianti italiani». La stoccata finale è sempre rivolta alla Fiom: «Posso fare l’elenco di tutti i Paesi europei e fuori Europa che si sono messi in fila per fare la Panda. In Polonia, poi, finora la Panda l’hanno prodotta bene e a livelli di qualità altissimi, mai raggiunti in una fabbrica italiana».

«Il 22 giugno - ha commentato da Milano il presidente della Fiat, John Elkann - sarà un giorno importante non solo per il futuro della fabbrica campana, ma per l’intero sistema industriale italiano». È proprio l’ultimo treno, insomma.

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