«Porto a Catanzaro la luce dell’America»

«All’inizio degli anni ’50 ho distrutto più di mille miei quadri» racconta Alex Katz, di cui domani si inaugura al Museo delle Arti di Catanzaro la mostra «Reflections», incentrata sui suoi ritratti - ce ne saranno di inediti, cinque maschili e quattro femminili - e sui celebri sgargianti paesaggi: i due mondi, insomma, della sua ricerca pittorica. Ma è forse questa iniziale ecatombe di tele ad aver prodotto l’arte più cool del secolo scorso. Già. «It’s cool». Ecco un marchio che molti artisti americani ucciderebbero pur di registrarlo a proposito della propria opera, ma lui è tra i pochi ad averlo ottenuto in fretta e senza apparente sforzo dall’Ufficio brevetti e marchi della Critica Istituzionale e, soprattutto, dal pubblico, da cui è adorato. Anzi, osiamo: Alex Katz è il pittore cool par excellence, più di Warhol, più di Rauschenberg.
Non aspettatevi da lui performance violente o scandalose. Se fosse uno scrittore sarebbe uno Scott Fitzgerald mai finito nei debiti e serenamente invecchiato negli Hamptons. Ma cosa è questa benedetta coolness? «È una studiata distanza da tendenze contrastanti - spiega Robert Storr nell’intenso saggio contenuto nel catalogo della mostra (a cura di Alberto Fiz, Electa, pagg. 248, euro 42) - una sofisticata via di mezzo tra picchi di impegno febbrile e abissi di gelido conservatorismo. Non è un atteggiamento spontaneo. È un talento che bisogna acquisire, un modo di comportarsi da persone civili, rimanendo vigili e reattivi, in un mondo che oscilla tra spasmi di passione e accessi reazionari».
Katz, lei è il pittore giusto per inaugurare la rinascita artistica del sud italiano. Ma partiamo dall’inizio.
«Sono nato a Brooklyn nel 1927 e sono cresciuto nel Queens vicino a un campo da golf. In vacanza si andava nel Maine, a quel tempo un’area rurale. Sono tutti luoghi che hanno influenzato il mio modo di vedere. Dopo la Skowhegan, una scuola d’arte del Maine, mi resi conto che mi piaceva dipingere all’aperto e cominciai a farlo con continuità, è una cosa che mi appartiene molto».
Infatti non solo i paesaggi, ma anche i ritratti di Katz sembrano concepiti sotto il cielo: i colori sono vividi, mai polverosi, sembrano restituire a chi li osserva quella che Aragon chiamava «la grande estate delle cose umane», cioè la sensazione di essere vivi nella luce.
Ma da dove arriva questa insolita magia, così rara nel Novecento?
«Una mostra di Matisse mi scioccò molto, all’inizio dei ’50, e mi fece lo stesso effetto un’altra di Pierre Bonnard. Il loro uso del colore era quanto di più sconcertante si potesse vedere a New York. E Pollock mi fece capire che tutto dentro e intorno a me era natura. Fu la mia vera formazione, era l’epoca in cui distrussi tutti quei quadri. Per quindici anni non potei mantenermi col mio lavoro di pittore».
La sua è arte per tutti, solare, ma non democratica. Per interiorizzarla si deve tirar fuori abbastanza «coolness» da se stessi.
«Proprio così, la mia tecnica è molto sofisticata.

Sono stato influenzato dalla fotografia, ma non dipingo mai da foto, piuttosto dalla vita. Mi occupo solo di questo, non faccio molto caso alle quotazioni o al successo, penso ci sia un’audience per gli attori e una per i pittori. Ragion per cui lavoro con musei o collezionisti, mai con sponsor».

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