Il postfascismo della destra? Scorie in via di smaltimento

"Fratelli di Giorgia" indaga sulle radici, il presente e gli ideali che caratterizzano il partito di Meloni

Il postfascismo della destra? Scorie in via di smaltimento

C'è voluta la copiosa dote di consensi confluiti su Fratelli d'Italia nelle recenti elezioni politiche perché l'avanzata della destra non sollevasse più (solo) un grido d'allarme sul pericolo di un rigurgito neofascista, ma convincesse l'opinione pubblica che era venuto il momento di prendere sul serio il progetto della Meloni: dare vita a quel partito conservatore di massa sempre mancato alla democrazia italiana. Sarebbe il superamento di quell'anomalia tanto lamentata sul conto della democrazia italiana: l'unica in Europa condannata a non praticare per cinquant'anni, e dopo il 1994 praticare a singhiozzo, il meccanismo dell'alternanza. Il meccanismo giudicato dagli estimatori della democrazia imprescindibile perché essa resti in buona salute. Nei media e nei partiti non s'è ancora fatta chiarezza su cosa sia il partito della Meloni. È un partito post fascista, un partito anti-antifascista, un partito conservatore che conserva però scorie del passato neofascista? O è divenuto a pieno titolo un partito conservatore sul modello europeo?

Per sciogliere questo nodo disponiamo ora di una ricerca (Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia. Il partito della destra nazional-conservatrice, Il Mulino, pagg. 296, euro 18) che fornisce un contributo decisivo per la conoscenza di Fd'I. Si tratta di un'indagine a tutto campo. Gli autori si sono avvalsi di una mole imponente di fonti e documenti: dati elettorali, programmi, studi, discorsi, comunicazione social del partito, nonché di una accurata survey su militanti e quadri del partito. Ne è uscita una panoramica sullo stato dei lavori avviati dalla Meloni per dar vita a un partito conservatore pienamente integrato - nei comportamenti e nei valori - alla democrazia liberale.

È inutile nasconderselo: c'è un punto delicato, eppur cruciale, di questa operazione. Dal momento che Fd'I è - e vuole essere - in linea di continuità con l'esperienza storica della destra italiana («ho raccolto il testimone - ha rivendicato in tutta franchezza la Meloni - di una storia lunga settant'anni») era imprescindibile che a un'indagine sociologica Vassallo e Vignati unissero una ricostruzione storica dell'intera traiettoria percorsa in questo dopoguerra dalle varie espressioni della destra: dall'Msi ad Alleanza nazionale fino all'esito odierno. È possibile in questo modo individuare persistenze e discontinuità presenti nella vita della destra italiana fino alla sua ultima espressione.

Non c'è aspetto della vita di Fd'I che non sia stato messo sotto osservazione: l'organizzazione, la classe dirigente, il radicamento sociale, l'insediamento elettorale, la cultura politica. Non è ovviamente, questa, la sede adatta per esaminare nel dettaglio i risultati della ricerca. L'acquisizione più importante che ci consegna e che con ogni probabilità susciterà la maggiore attenzione nell'opinione pubblica pare a noi quella relativa al quesito: il partito della Meloni si può considerare il punto di arrivo della lunga marcia nelle istituzioni condotta dalla destra postfascista per acquisire quella piena legittimità che i partiti dell'arco costituzionale le hanno a lungo o negato (la sinistra) o messo ciclicamente in forse (il centro)? Per essere più espliciti: la continuità vantata da Fd'I con la tradizione della destra italiana significa che nella sua cultura politica si annida una continuità, anche solo latente, con il neofascismo?

Gli autori non si nascondono che sull'uso del termine fascismo si è fatto nel dopoguerra un uso disinvolto. Lo ha fatto soprattutto la sinistra. Del fascismo ha operato una tale dilatazione semantica da fargli acquisire una dimensione metastorica: l'Ur-fascismo, il fascismo eterno di Umberto Eco, una categoria dello spirito destinata a inquinare la vita politica italiana illimitatamente nel tempo. Di riflesso, l'antifascismo si è avvalorato come la tavola dei valori e l'impegno di militanza imprescindibili per ogni autentico democratico. Da semplice dato storico-genetico si è trasformato in dato ontologico della democrazia. La sinistra in tal modo si è attribuita il ruolo di vestale della democrazia riconquistata e al contempo ha relegato nell'illegittimità la destra, nata - e condannata a restare - neofascista.

Superare l'identità originaria è stata la sfida cruciale per la destra italiana, com'è del resto per ogni partito nato anti-sistema. È questa un'operazione non solo delicata, ma estremamente dolorosa, talora addirittura traumatica. Anche quando la lunga convivenza all'interno delle istituzioni democratiche sedimenta comportamenti leali nei loro confronti, il passo ulteriore di abiurare la fede originaria costa sempre lacrime e sangue al corpo del partito. È illuminante al proposito il caso del Pci. Nonostante, al passaggio degli anni Novanta, fosse ormai di fatto un partito socialdemocratico, proclamarsi tale ha comportato liquidare la sua identità originaria, che pure aveva resistito a ogni precedente smentita della storia. Ne sono seguiti una scissione e l'abbandono della casa madre di molti militanti ed elettori. La destra italiana, invece, nella transizione a una nuova identità non ha pagato il conto di scissioni né di abbandoni. Anzi è avvenuto il contrario. Con Fd'I si è assistito a un'esplosione di consensi. Vuol dire allora che non è stata operata quella sostituzione d'identità che sola avrebbe potuto far guadagnare alla destra la piena legittimità democratica?

Gli autori non sono di questo avviso. Questa la conclusione della loro investigazione: «L'accostamento al fascismo che spesso viene suggerito dagli avversari di Fd'I è parte di quelle iperboli strumentali di cui si nutre la propaganda». Il fascismo «è ormai relegato a momento storico di un passato irripetibile, che ha poco o niente da offrire per orientare l'azione politica».

Forse - aggiungiamo noi - lo smaltimento delle scorie di neofascismo di cui la destra s'era impregnata al suo sorgere è risultato un processo meno traumatico per il fatto che il suo nostalgismo, più che un'adesione politica a un programma d'azione, era un dato psicologico, esistenziale quasi, quindi individualmente irrinunciabile, ma collettivamente meno vincolante.

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