"Il potere di Mugabe si fondava sulla paura e riduceva gli uomini ad animali in gabbia"

La scrittrice nata in Zimbabwe racconta il regime e la rivolta (pacifica) finale

"Il potere di Mugabe si fondava sulla paura e riduceva gli uomini ad animali in gabbia"

Nel 2017, quando Robert Mugabe si dimise da presidente dello Zimbabwe (aveva 93 anni e non controllava più l'esercito), in NoViolet Bulawayo scattò qualcosa: «Vidi l'unico presidente che avessi conosciuto, l'unto da Dio, lasciare il potere. E decisi di scrivere». Così è nata l'idea di Gloria (La nave di Teseo, pagg. 424, euro 22), il nuovo romanzo della scrittrice nata col nome di Elizabeth Tshele a Bulawayo, nello Zimbabwe, nel 1981. Bulawayo ha lasciato il suo Paese a diciott'anni per trasferirsi negli Stati Uniti, dove ha vinto il Pen/Hemingway 2014 per il romanzo d'esordio C'è bisogno di nuovi nomi. Ora vive a Berlino, anche se parla via zoom da Hannover, dove ha presentato il nuovo romanzo. Nel quale, sotto la Gloria apparente, racconta un Paese al disastro. Dove al posto degli umani ci sono degli animali e dove Vecchio Cavallo, leader della Rivoluzione contro gli ex coloni oppressori, dopo quarant'anni di governo (cioè di dittatura) viene cacciato con un colpo di Stato militare, organizzato dal suo vice e dai generali, i cani. Ma gli abitanti - cani, gatti, capre, galline, tori... - della terra «riliberata» scoprono, a caro prezzo, che la libertà vera è un'altra cosa...

NoViolet Bulawayo, dittatura e animali vuol dire Orwell.

«Sì, ovviamente è un libro che si muove nel suo immaginario, che ho frequentato dalle scuole superiori. Poi, nel 2017, ho iniziato a notare che ci si riferiva allo Zimbabwe come a una fattoria degli animali e così ho utilizzato il libro per dare un contesto alla nostra situazione; inoltre stavo cercando un modo per parlare delle persone che suonasse nuovo e interessante, perciò ho pensato di lasciare stare gli uomini e parlare di animali».

È nata così l'idea?

«Non solo. Mia nonna non sapeva né leggere né scrivere, ma da piccola mi raccontava sempre storie di animali. Sono cresciuta ascoltando quelle storie, perciò credo di avere apprezzato Orwell ancora di più. Quindi questo progetto stilistico è un matrimonio fra la tradizione letteraria occidentale e quella orale di mia nonna».

Nel libro c'è una donna, Destiny, che torna dall'esilio e va al suo paese d'origine, Bulawayo. C'è qualcosa di autobiografico?

«Il nome Bulawayo, che è anche quello di una regione, appare perché significa luogo del massacro. Ha una connotazione di violenza, che è qualcosa di molto presente nel libro. Negli anni '80, nella regione sono avvenuti numerosi massacri e per tante persone è una esperienza molto famigliare».

Qual è il legame fra potere e violenza?

«Se il potere è mal gestito porta alla violenza, fino alla tirannia. Il potere non può esistere senza violenza. È la violenza che porta al potere, è la violenza che mantiene il tiranno al potere e i cittadini sotto controllo ed è sempre la violenza che, a volte, detronizza il potere. In Gloria non sono i cittadini che si rivoltano, all'inizio, bensì i cani, i Difensori, che mettono alla prova la loro stessa violenza. Alla fine ci sarà una rivoluzione dei cittadini, e sarà pacifica».

Nel suo ultimo discorso, ormai farneticante, Vecchio Cavallo dice la verità: il potere si regge sulla paura.

«È una paura della violenza: tutti sanno che contro di noi sarà usato qualsiasi mezzo. E questa paura ha una grossa parte nella storia. Quando, alla fine, Destiny si trova davanti i Difensori e va avanti a leggere sul palco, ha deciso di non avere più paura: è questo a portare il vero cambiamento».

All'inizio c'è un raduno di propaganda. Il regime si basa sulle bugie?

«Assolutamente. Quello che è interessante è che in quella scena le persone applaudono, anche se sanno che si tratta solo di bugie. Mi domando quale sia la nostra complicità nelle nostre miserie e oppressioni...»

Parole come democrazia, libertà, rivoluzione, indipendenza nascondono in realtà il contrario. Il linguaggio così perde significato?

«Sì. È inevitabile. Il linguaggio è uno strumento e si piega alle forze che prevalgono. Quindi può essere usato per significare l'opposto di ciò che è, per riscrivere la storia, per servire il potere; invece Destiny vuole scrivere la sua storia. Ho scritto Gloria negli anni di Trump e mi affascinava il modo in cui usava il linguaggio come arma, in una cultura che associa certe immagini alla verità e alla morale...»

È molto critica sulla liberazione dai colonizzatori.

«I primi colonizzatori erano degli oppressori; ma i liberatori hanno usato le stesse tattiche e le stesse regole contro cui avevano combattuto. È ironico... Perciò io credo nell'idea di una seconda indipendenza: perché la prima era artificiale».

La vede possibile in futuro?

«Credo sia inevitabile, che sia nella natura del potere disfarsi. È solo questione di quando».

Che cosa significa libertà?

«Significa dignità. Dignità economica, specialmente per un Paese ricco come lo Zimbabwe, dove oggi si fa la fame. Dignità politica, ovvero la volontà di scegliere il nostro destino, di eleggere i nostri leader. E, a livello personale, persone che vivono vite che diano loro il senso di esistere».

Come?

«In Zimbabwe non sperimentiamo mai un senso di normalità. I disoccupati sono circa il 90 per cento. Non c'è l'acqua corrente per giorni, l'elettricità c'è qualche ora, di notte. Non si può neanche studiare. Questa è un'assenza di libertà che si traduce nella vita quotidiana».

Il potere attrae: vive anche di adulazione, oltre che di paura?

«È proprio ciò che Gloria critica. Dopo il raduno del regime, le bugie e la propaganda, i cittadini vanno a casa, e io chiedo: che cos'era quel raduno?, a che cosa avete applaudito?, chi ci opprime? La sfida è elevare la consapevolezza, interrogare i politici e noi stessi, perché possiamo anche essere parte del problema».

Ha speranza?

«Certo. L'essere umano spera. Però non basta: la speranza deve essere accompagnata dall'intenzionalità delle persone a contribuire e a svolgere il proprio ruolo, senza arrendersi».

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