Che gli intellettuali abbiano molto da farsi perdonare, basta guardare a ciò che hanno combinato nel Novecento, si può convenire. Che non tutti, specie in Italia, siano allaltezza della loro fama, posso anche essere daccordo. Ma che siano per definizione dei buoni a nulla, inadatti a cogliere la realtà, tutti, senza distinzione, beh, ci andrei decisamente più cauto. Specie se fossi il ministro dei Beni culturali. Specie se fossi, come nel caso di Sandro Bondi, uno degli uomini che meglio conosce la parabola umana e politica di Silvio Berlusconi.
Già, Berlusconi. Nel mio articolo sul Riformista del 2 febbraio - che Bondi sul Giornale di ieri ha duramente contestato, ma sempre col suo modo garbato e civile - ho espresso dubbi su taluni aspetti, oggi divenuti predominanti, del berlusconismo. In particolare, me la sono presa con una certa visione emergenziale e minimalista della politica, che tende ormai ad esaltarsi e a dare il meglio di sé solo quando i problemi le si presentano dinnanzi in forma drammatica, senza mai riuscire ad anticiparli o prevenirli. Una politica che perciò è destinata ad avere il respiro corto, senza mai guardare avanti, senza mai porsi obiettivi strategici. Ho riassunto tutto ciò, polemicamente, nel nome di Guido Bertolaso, divenuto non a caso luomo-simbolo, ai miei occhi negativo, di questa poco esaltante stagione politica: una sorta di Mr. Wolf, come nel film di Tarantino.
A questidea di politica, il suo perenne girare a vuoto intorno alle grandi questioni che stanno a cuore ai cittadini, il suo essere incatenata ad una sorta di eterno presente, ne ho affiancata unaltra, progettuale e costruttiva, capace di grandi visioni e di grandi realizzazioni, che vada oltre la gestione ordinaria dellesistente, e che a pensarci bene è anche quella più aderente alla matrice autentica e originaria del berlusconismo. Bene, mi viene detto che questo modo di ragionare è quello tipico della cultura di sinistra, degli intellettuali organici di una volta, malati di ideologia, che hanno finito per produrre solo disastri. Sarei dunque, come tutti gli intellettuali, uno che vive nel regno della fantasia e dei sogni e per questa ragione, spiega Bondi, non posso comprendere le ragioni e il significato della presenza di Silvio Berlusconi nella storia italiana.
Sarà, ma mi viene da chiedere, a questo punto, che ne è dello slancio visionario e immaginifico, addirittura utopistico, che è stato alla base della fortuna politica di Berlusconi. Non è stato proprio questultimo a presentarsi sulla scena pubblica nazionale nei panni di un autentico rivoluzionario, di un innovatore radicale, intenzionato a costruire, mentre tutti gli davano di matto, una «nuova politica» e una «nuova Italia»? Il Cavaliere in tutti i modi può essere definito fuorché un intellettuale, ma è certo che proprio sulla mancanza di senso della realtà, sulla ragion critica e sulla progettualità di ampio respiro egli ha edificato il suo mito.
A dispetto di ciò, alla «lucida follia», degna di un grande umanista rinascimentale, Bondi oggi oppone lelogio del buon senso, il riformismo dei piccoli passi. Egli invoca il realismo e il pragmatismo, dimenticando che questi ultimi sono guide per lazione, ma non definiscono lobiettivo generale che un politico intende raggiungere. Quanto alla «cultura del fare», ben venga in un Paese amante delle chiacchiere, ma essa ha un senso nel quadro di un disegno politico e di unidea della società.
La cosa buffa, insomma, è che criticando il Berlusconi di oggi, io ho in realtà tessuto lelogio, magari involontario, del Berlusconi che proprio Bondi in passato ha sempre proposto a modello: quello capace di reinventarsi in ogni circostanza, mai prigioniero della realtà ma sempre pronto a scavalcarla e a indirizzarla secondo la sua volontà, capace di pensare in grande e di vedere ciò che gli altri non vedono.
*Direttore scientifico Fondazione Farefuturo