Primi piani di un pessimista che non portava mai rancore

U ltimamente ho trascorso molte ore con Montanelli. Le ho trascorse, anzitutto, preparando insieme a Luigi Mascheroni una mostra di fotografie allestita nel Museo di storia contemporanea in via S. Andrea a Milano: mostra che sarà inaugurata mercoledì prossimo, a suggello delle manifestazioni per il centenario della nascita di Indro.
Curare una mostra di immagini montanelliane - cito ciò che ho scritto in una presentazione - è il mestiere più facile del mondo. Indro pareva nato apposta per essere fotografato. Tutto aiutava in lui. L’alta statura, il corpo filiforme, l’eleganza ossuta delle mani che artigliavano idee e battute. E poi quel volto che avrebbe fatto invidia, per come forava l’obbiettivo e per come rifletteva i sentimenti, a un Eduardo De Filippo. Passava, il volto di Indro, dal sorriso al cipiglio, dalla tenerezza alla tristezza, dalla riflessione alla severità. Montanelli era molto più dolce di come lo descrive e lo ricorda chi non l’ha ben conosciuto. Ma doveva pur convalidare a volte, con la faccia feroce, il suo ruolo di toscanaccio intrattabile. Un cenno a parte meritano i bellissimi occhi azzurri, occhi che ti trafiggevano.
Mentre ordinavo le istantanee di Montanelli cercavo frasi, tutte sue, che potessero adeguatamente commentarle. E così ho ritrovato, in tante sintesi di poche righe, l’eleganza d’una scrittura moderna senza sciatteria, pungente senza isterismi, perfetta nella scansione della punteggiatura. Già da quei brandelli di prosa e di ragionamento si capiva che Montanelli non è datato, non lo sarà mai. Altri giornalisti che ebbero celebrità anche meritata sono diventati illeggibili. La loro scrittura sa di artefatto, le loro citazioni sanno di appiccicaticcio. Erano dei manieristi, e postumamente cedono il passo a Montanelli così come il cavalier Marino deve cederlo al Petrarca o a Leopardi.
Una ripassata di Montanelli fa sempre bene, due sono ancora meglio. Il caso o la fortuna hanno voluto che alla mostra si siano affiancate le prime pagine del Giornale montanelliano, da noi riproposte come documento. Un grande documento in effetti. Che lascia capire quanto siano cambiati, dagli anni Settanta a oggi, il linguaggio comune e il linguaggio giornalistico. Non vuole essere, il mio, un rilievo da laudatore acritico del passato, non credo affatto alla «gran bontà de’ cavalieri antiqui». Nella politica e nella polemica le reazioni, i sentimenti, i risentimenti non erano, qualche decennio fa, meno passionali e meno duri di quanto siano oggi. Ma si esprimevano - almeno al livello degli oratori e delle penne migliori - in altro modo. Quel grande omogeneizzatore - verso il basso - che è la televisione ha portato nel più potente tra i mezzi di comunicazione la brutalità delle cose che la gente comune dice tutti i giorni, al bar o in piazza o in casa. La carta stampata s’è dovuta adeguare alla lingua parlata per non apparire, nel confronto con i concionatori televisivi, una nicchia di ammuffiti soci della Crusca.
Montanelli resiste alla grande per la chiarezza del racconto e per l’incisività dell’eventuale sberleffo. Ma la sua ci sembra, retrospettivamente, una lingua colta. Come quella di Bettiza, come quella di Zappulli, come quella di Piovene, per citare alcuni tra gli eccellenti che il Giornale arruolò. Anche negli attacchi più cattivi Montanelli dava l’impressione di usare il fioretto. O di intingere la penna nel veleno, mai però nel fiele (se non in qualche suo sfogo contro Berlusconi, dopo la rottura). Bettiza sa essere perfido come nessun altro, ma alla sua maniera di barone balcanico. Zappulli era incapace di astiosità, il campo in cui si muoveva, e in cui era maestro, era quello dell’irrisione. All’occorrenza sfoderava la pernacchia giornalistica, un misto di disprezzo e d’indulgenza.
Ho nostalgia di quello stile magari sconfinante nel salottiero? Un po’ sì, ma senza illusioni. Anche nelle guerre, la cavalleria non c’è più con le sue cariche, l’ha condannata la mitragliatrice. Il giornalismo armato di fioretto è stato sostituito - da tutti e dovunque - dal giornalismo armato di mazza ferrata. In una valutazione attuale anche la polemica, che venne ritenuta aspra, tra Montanelli e Fortebraccio - Mario Melloni, già direttore del Popolo democristiano e poi comunista puro e duro - risulta salottiera.
Melloni rinfacciava a Indro - traggo queste citazioni da un vecchio libro di Donato Mutarelli su Indro - una «squallida incapacità di credere»: e gli opponeva la sua fermezza trinariciuta. «Essendo comunista, io penso che il Pci abbia ragione. Ma voglio aggiungere una cosa: abbia sempre ragione... Se potessi vorrei essere una circolare del Pci». Contro il neonato Giornale, soprannominato Il Geniale, Fortebraccio usò a dire il vero, se non la mazza ferrata, almeno l’olio bollente degli assediati. «Per mesi ci siamo sentiti annunciare il miracolo, ed ecco che esce questa specie di abortino, vuoto come un uovo bevuto». Al che Indro, da gran signore: «Fortebraccio non morde. Mordacchia. Cinguetta. Allude. Peccato: con un pizzico di talento in più ed una crisi di coscienza in meno, potrebbe diventare Elsa Maxwell». Che era una famosa opinionista americana.
Insieme alla bellezza della prosa ha risalto, negli editoriali di Indro che stiamo ripubblicando, il suo pessimismo di temperamento e di convinzione. Ogni tanto si sforzava di camuffarlo. Con struggente ipocrisia finse di credere che i conati per creare una forza di centro laica da opporre sia alla Dc sia al Pci potessero avere successo. Ma nel profondo della sua sensibilità c’era l’amarezza per un’Italia irrecuperabile, c’era il timore, o piuttosto la certezza, che il Paese non si sarebbe mai davvero riscattato. Glielo impediva un deficit di senso civico ereditato dalla storia e aggravato dal carattere di molti milioni d’italiani.
«Noi italiani - sentenziò implacabile - non crediamo in nulla e tanto meno nelle virtù che qualcuno ci attribuisce. Ma tra di esse ce n’è una nella quale riponiamo una fede incorruttibile: quella della nostra capacità di corrompere tutto». Col tempo, Indro finì per non credere più nell’Italia che amava, per rinnegarla quasi.

Nella postfazione a L’Italia dell’Ulivo, il capolinea a quattro mani della Storia d’Italia, confermò il suo assoluto sconforto. La sua storia d’Italia finiva lì, avvertì, caso mai spettava a me, se me la sentivo, di continuarla da solo. Francamente, non me la sono sentita.

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