Primo ciak del film sul poeta del jazz

Michele Anselmi

da Roma

Chissà se Veltroni andrà a trovarli sul set. Di sicuro, il sindaco-scrittore s’è ritrovato nella sceneggiatura che Ivan Cotroneo, Claudio Piersanti e il regista Riccardo Milani hanno tratto dal suo libro sul jazzista suicida Luca Flores, pubblicato nel 2003. Si gira da lunedì scorso a Roma Il disco del mondo, sottotitolo Piano, solo. Film ambizioso, complesso, non solo per gli andirivieni temporali e la vicenda tragica che racconta: perché jazz e cinema sembrano fatti l’uno per l’altro, invece il connubio non sempre riesce. Ne sa qualcosa il Tavernier di Round Midnight. Ma il quarantasettenne Milani, tanta pubblicità alle spalle (i Re Magi per Sperlari), tre lungometraggi (Auguri professore, La guerra degli Antò, Il posto dell’anima), varie serie tv (Il caso Soffiantini, Cefalonia), non teme la sfida. «La storia di Luca Flores è di quelle che ti entrano dentro scavando in profondità nell'animo umano. Il suo genio musicale, insieme ad una sensibilità fuori dal comune, ne fanno un personaggio straordinario e affascinante», ha spiegato alla vigilia del primo ciak.
Set blindato fino al termine delle riprese, che dureranno dieci settimane, tra l’Italia e l’Africa. Produce la Palomar di Carlo Degli Esposti, Raicinema e Hugo Film, con l’aiuto di un fondo di garanzia ministeriale attorno ai due milioni di euro. Protagonista Kim Rossi Stuart, nei panni di Luca Flores, più un cast all-star nel quale spiccano Jasmine Trinca, Michele Placido, Sandra Ceccarelli, Roberto De Francesco, Claudio Gioè e Paola Cortellesi (compagna nella vita del regista).
Chi è Luca Flores e perché si racconta la sua «vita breve»? Flores morì suicida il 29 marzo 1995, appena trentanovenne. La sua vicenda, esistenziale e artistica, colpì Veltroni, il quale, prima di cimentarsi con Senza Patricio, già pronto a diventare un film di Gianni Amelio forse intitolato Amado mio, gli dedicò un'affettuosa biografia: appunto Il disco del mondo. Pochi giorni prima di togliersi la vita, impiccandosi, Flores incise al piano, in solitario raccoglimento, How far can you fly?, partitura malinconica, straziante, dilatata nei tempi (un po’ alla maniera di Keith Jarrett): il cui titolo - significa «Quanto puoi volare lontano?» - suonava veltroniano ancora prima che Veltroni l’ascoltasse, scartando un cd ricevuto in regalo.
«Cercare di capirlo mi sembrò un dovere. Quel dolore chiedeva aiuto, anche postumo», confessò Veltroni, il quale ritiene che «si debba avere del dolore dentro per fare del buon jazz». Certo, da Charlie Parker a Chet Baker, la storia di quella musica è popolata di alcolisti, scorticati, drogati e schizofrenici. Spesso di genio. Anche Luca Flores, dai critici collocato addirittura tra Thelonious Monk e Bill Evans, appartiene alla gloriosa famiglia. In effetti c’è qualcosa di tremendamente cinematografico nel percorso del musicista palermitano, il cui tragico destino sembrò profilarsi sin dall’infanzia, funestata dalla prematura morte in Mozambico della madre Jolanda (Luca si sentì sempre un po’ colpevole dell’incidente d’auto), fino ai giorni dell’autodistruzione fisica: un tendine reciso, polpastrelli tagliati, un cacciavite nell’orecchio.
«Perché Luca Flores? Perché la sua è una storia, dolente e vitale insieme, che attraversa tre decenni: dai Settanta ai Novanta», aggiunge Milani. «L’idea è di comporre il ritratto di un giovane che ama la musica, e attraverso la musica - non la politica, come tanti suoi coetanei - esprime il proprio disagio, la fatica di crescere». Di più il regista non dice. Ma, con un po’ di fantasia, ci si può immaginare come il dinoccolato Kim Rossi Stuart restituirà l’esistenza errabonda e un po’ maledetta di Flores: il ricordo della disgrazia africana, il rapporto contraddittorio col fratello Pablo e le sorelle Heidi e Barbara, gli esordi avventurosi con l’Invitation trio, gli amori tormentati con Cinzia e Michelle, il folgorante esame al Conservatorio, l’incontro con Chet Baker e Massimo Urbani, gli anni dell’annichilimento fisico, presaghi di morte. Non a caso teorizzava Flores: «Amo quei musicisti che cantano, scrivono e suonano ogni nota come se fosse l’ultima».


Il film dovrebbe cominciare e finire in Africa, al suono melodioso di una canzone di Miriam Makeba. Per Veltroni, il cui Forse Dio è malato farà da spunto per un docu-film di Franco Brogi Taviani, qualcosa di più di una semplice coincidenza.

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