Primo de Rivera: un "santo fascista" creato da Franco

Ribelle e moderno, dopo la sua morte fu addomesticato e depotenziato

Primo de Rivera: un "santo fascista" creato da Franco

È probabile che a un giovane spagnolo di oggi il nome di José Antonio Primo de Rivera dica poco o niente, figuriamoci quindi a un ventenne italiano. È però un peccato, perché egli fu uno dei personaggi di maggior rilievo della Spagna dei primissimi anni Trenta, di sicuro il più fascinoso per eleganza e prestanza fisica, capacità oratoria e sensibilità poetica, amico, fra l'altro di Federico Garcia Lorca Fondatore della Falange, l'unico vero movimento fascista in terra di Spagna, per nulla assimilabile al franchismo che vide la luce con la ribellione militare del 1936, fu quest'ultimo ad appropriarsi della sua figura, meglio, del suo cadavere, a guerra finita, dando vita a una sorta di via crucis lunga oltre quattrocento chilometri e percorsa tutta a piedi, che ne traslò i resti dal cimitero di Alicante, dove era stato seppellito, all'Escorial dove venne messo as riposare fra re e imperatori. Va ricordato che José Antonio era stato arrestato nel marzo del 1936, quattro mesi prima dell'alzamiento militare contro il governo repubblicano in carica, e fatto condannare e fucilare quattro mesi dopo. Fu "un grave errore politico per la Repubblica", come ha sottolineato uno storico di vaglia quale Paul Preston: da vivo, con molta probabilità, José Antonio sarebbe stato una spina nel fianco di Franco non così facile da eliminare; una volta morto ne divenne idealmente il referente ideologico senza però alcuna incidenza sulle scelte politiche della dittatura uscita vittoriosa dalla guerra civile.

Presenti (Mondadori, traduzione di Federica Niola, 328 pagine, 22 euro) di Paco Cerdà racconta quell'incredibile pellegrinaggio - corteo - messa funebre che nell'autunno del 1939, a confitto finito, con la Spagna ancora ingombra di macerie, con i repubblicani in fuga o in esilio o in carcere o messi al muro permette al franchismo, ora al potere, di costruire una nuova memoria in nome di un assente che diventa eternamente presente, un José Antonio sempre vivo che non solo annulla la realtà della sua morte, ma ne altera profondamente quelli che erano stati i pensieri e le azioni della sua vita. Una memoria costruita ex novo, cristologica quasi (José Antonio morirà a 33 anni...) e che attraverserà l'intero arco della Seconda guerra mondiale per poi venire lentamente abbandonata, via via che il regime franchista acquistava una totale sicurezza interna e cominciava a ritagliarsi un proprio spazio conservatore e anticomunista nell'Europa della guerra fredda.

Oltre a ripercorrere, a piedi, una parte del percorso, i 10 chilometri, la distanza coperta da ogni falangista tra un cambio e l'altro nel corteo, fra Correl de Almaquer e Villetobas, Cerdà ha studiato nei dettagli il video di diciotto minuti che il Departemento Nacional de Cinematografia girò nel 1939: Presente! En el enterramiento de José Antonio Primo de Rivera, un bianco e nero febbrile e insieme spettrale. Soprattutto però ci ha costruito intorno un vissuto che per certi versi capovolge il titolo del libro, nel senso che i veri presenti sono gli assenti, le vittime di quella guerra civile che per tre anni insanguinò il Paese e che poi pagarono il loro contributo di dolore e spesso di morte anche nei campi profughi allestiti in Francia, nonché nella repressione civile che continuò ben oltre la fine del conflitto. Lo ha fatto con un certosino lavoro di documentazione di cui danno conto le venti pagine finali dedicate alle fonti, le quali spaziano da saggi storici a memorie nonché a lettere private, a fondi universitari e tesi di laurea, testimonianze eccetera. Degna di nota è la presenza anche di vittime insurrezionali e/o nazionaliste, ovvero dei caduti di quella che fu, prima e durante la guerra civile, la repressione da parte della Repubblica, perché ciò che negli anni è spesso stato sottaciuto è l'altissimo grado di conflittualità, di vere e proprie opposizioni l'un contro l'altra armate, in quella Spagna degli anni Trenta che vide la caduta della monarchia di Alfonso XIII e la nascita della Seconda repubblica; golpe militari e tentativi anarchico insurrezionali falliti; Fronti popolari vittoriosi, messe al bando di partiti e organizzazioni politiche, fra cui la stessa Flange di José Antonio, assassinii di leader di partito, esecuzioni sommarie e di gruppo...

Per certi versi, il libro di Cerdà è una sorta di de profundis continuato e ritmato persino nello stile, una litania dolente di nomi di persone e di luoghi, un susseguirsi se non di vere e proprie efferatezze o bestialità, di soprusi, vessazioni, angherie, speranze disilluse. Questa unicità di tono è parte del fascino del libro, una sorta di epica al nero, ma ne segnala anche il limite, nel senso che nelle decine di casi raccontati, verrebbe da dire riesumati dall'autore, visto che rimandano a vite finite in un cimitero o in una fossa comune, alla fine si fa fatica a distinguere le une dalle altre, non l'unicità delle singole vite, ma la comunanza delle loro morti. Il nome di Francisco Franco non appare sino a pagina 270 del libro, 20 pagine appena prima della parola fine. Come ha detto lo stesso autore in un'intervista, si tratta di una scelta voluta: "Volevo raccontare il José Antonio creato da Franco, la sua opera, il suo sviluppo simbolico. Per questo ho desiderato che il Caudillo stesse dietro la scena teatrale, agendo e manipolando quella Spagna che non sarebbe diventata franchista come sognava José Antonio, perché a Franco interessava più il nazionalcattolicesimo che il nazionalsocialismo creato dal figlio di Miguel Primo de Rivera".

In realtà, il termine corretto sarebbe il fascismo di José Antonio, considerata anche l'assenza dell'antisemitismo nella sua creazione politica, e l'accento posto sull'anticapitalismo e sulla giustizia sociale, sul farla finita con destra e sinistra, su una rivoluzione nazional-sindacalista. Ma va anche detto che, da un punto di vista elettorale, il falangismo fu poca cosa, lo 0,4% dei voti, nemmeno un seggio in parlamento... Né va dimenticato che liberalismo e democrazia erano per José Antonio specchietti per le allodole e l'unica dialettica ammissibile "la dialettica delle pistole"...

L'interesse per la figura di José Antonio, come ha notato il già ricordato Paul Preston, sta altrove ed è sottolineata proprio "dall'esistenza di parecchi miti in contrapposizione fra loro e usati entusiasticamente dagli adulatori di Franco, dai falangisti suoi oppositori e persino da democratici antifranchisti". È fuor di dubbio che i suoi ultimi mesi di vita lo avessero spinto verso l'idea di una riconciliazione nazionale, ottenuta attraverso un governo di "concordia nazionale" il cui primo atto sarebbe dovuto essere un'amnistia generale. C'è del resto nelle sue lettere dal carcere il timore che una vittoria militare sarebbe stata "il trionfo di un gruppo di generali di deprimente mediocrità politica, legato a una serie di cliché politici, sostenuto dal carlismo intransigente con tutta la sua arretratezza e dalle pigre e miopi classi conservatrici con i loro interessi costituiti e dal capitalismo agrario e dalla finanza". Di questi scritti, in forma di lettere o in forma di testamento, Paco Cerdà ne parla come dei timori di un "veggente dal carcere", "l'instaurazione di un falso fascismo conservatore, la preclusione, nel giro di pochi anni, di ogni possibilità di costruire la Spagna moderna".

Quando nel 1959, le sue spoglie vennero traslate dall'Escorial al grande mausoleo di Franco nella valle de Los Caidos, il leader socialista in esilio Indalecio Prieto, già ministro nei primi governi repubblicani, dirà che in quel modo José Antonio veniva "condannato a una compagnia disonorevole, che egli certamente non merita. È stato un uomo generoso".

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