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Un procedimento ridicolo, senza uno straccio di prova

Il legale, che è accusato di aver aiutato il Cavaliere, fu un testimone favorevole alla tesi dei pm. Tante perizie ma nessuna evidenza che quei 600mila dollari dati a Mills provenissero da Fininvest

Un procedimento ridicolo, senza uno straccio di prova

Se una corruzione corrisponde a un dare per avere, nelle motivazioni della sentenza di condanna di David Mills manca la prova del dare e manca la prova dell’avere. In altre parole, manca tutto.
In estrema sintesi: il dare sarebbero alcune testimonianze fornite da David Mills in due processi a carico di Berlusconi negli anni 1996-97, ora giudicate reticenti, e l’avere sarebbero circa 600mila dollari che Mills ebbe nel 1997 con modalità che secondo l’accusa sono scollegate alle parcelle che frattanto gli venivano pagate (dalla Fininvest) in qualità di creatore della galassia societaria del comparto estero.
Peccato per due dettagli. Il primo è che la «reticenza» di Mills contribuì alla condanna in primo grado di Silvio Berlusconi nel processo All Iberian, successivamente assolto ma non grazie a Mills; il secondo è che non c’è nessuna prova che quei 600mila dollari vengano da ambienti Fininvest, avendo semmai cercato di dimostrare, Mills e i legali, che quei soldi vengano da tutt’altra direzione: ipotesi che l’accusa, in un mare di cifre e scatole cinesi, ritiene «matematicamente smentita» a margine di un processo dove parole del genere suonano veramente un po’ forti.
Quindi daccapo: sotto il profilo logico e probatorio manca il dare, perché Mills fu teste d’accusa contro Berlusconi che fu condannato, e manca l’avere perché i giudici possono sbracciarsi sinché vogliono, ma la prova che quel denaro venga da Berlusconi proprio non c’è (mai lo scrivono esplicitamente) e infatti il non essere riuscito a dimostrarlo è la ragione per cui da mesi, da anni, non c’è cronista che non paragoni questa vicenda a un processo per assassinio senza il morto, con il pm Fabio De Pasquale, in corso d’opera, a sperare che saltasse disperatamente fuori da qualche catacomba offshore.
La presupponenza delle motivazioni comincia coll’individuazione certa e indiscutibile della reticenza di Mills, il quale, si argomenta, tacque questo e quest’altro, soprattutto ricondusse la proprietà delle società offshore «solo genericamente a Fininvest e non alla persona di Silvio Berlusconi, in tal modo favorendolo in quanto imputato in quei procedimenti». Chissà che ne pensa il pubblico ministero Francesco Greco, che ascoltò a lungo David Mills dal 1996 al 1997 (processo All Iberian) e mai gli contestò verbale alcuno, anzi: Mills fu contestato semmai da alcuni manager Fininvest e dalla difesa di Silvio Berlusconi, per il quale Greco chiese infine cinque anni e mezzo e ottenne una condanna. Roba da coprirlo di soldi, Mills.
Sotto un profilo congetturale, poi, i giudici avanzano l’ipotesi che Berlusconi senza l’aiuto di Mills non sarebbe stato nemmeno assolto nel cosiddetto processo Telepiù: e su quali basi lo dicono? Forse che Mills disse il falso o non rispose alle domande? No: «Egli non poteva dire in modo eclatante il falso, poteva soltanto, coi suoi artifici verbali (“tricky corners”) aggirare le domande più insidiose e indurre i giudici in errore». Non erano molto intelligenti neanche loro, evidentemente.
Per il resto, le 376 pagine di motivazioni depositate ieri a Milano sono molto aggressive e suggestive, ma non rivelano nulla di inedito se non in termini pluri-analitici e soprattutto interpretativi: i giudici decidono quali consulenti tecnici l’hanno detta giusta e, tra le infinite versioni e ritrattazioni di Mills, quale sia l’autentica o meglio la «genuina». Non aggiungono però gli elementi che mancavano, non ricostruiscono le prove che non c’erano e non ci sono, non riempiono i buchi del groviera istruttorio. La sentenza, al netto delle tecnicalità, è un’articolata esercitazione di libero convincimento del giudice: ciò che magari può giustificare delle indagini e persino un rinvio a giudizio, ma non una ponderosa sentenza buttata lì come è lecito fare in primo grado italiano.
Al di là degli strumenti adottati per argomentare le proprie convinzioni, infatti, resta che sono convinzioni: lecite, senz’altro, ma che da tesi di parte non autorizzano a chiamare «prova» e «provato», come si legge ogni due righe nella sentenza, ciò che non lo è. Con lo stesso materiale maneggiato da Nicoletta Gandus, in sostanza, si potrebbe argomentare in cento altri modi e nessuno.
Comunque vada in futuro, anche se un Appello dovesse smontare la sentenza com’è estremamente probabile, il ruolo del pm Fabio De Pasquale e del giudice Nicoletta Gandus, intesi come coloro che ci avevano provato, sarà comunque passato in cavalleria. Va ricordato, infatti, soprattutto a certi esponenti dell’opposizione, che Berlusconi non è ancora stato processato (per via del Lodo) e che in ogni caso lo giudicherà un collegio diverso da quello che ha condannato l’avvocato inglese. Un collegio normale, poi, in Appello, potrebbe finalmente avvedersi che la sortita del pm Fabio De Pasquale di postdatare la commissione del reato a marzo del 2000, così da evitare la prescrizione, proprio non stava in piedi: i 600mila dollari, chiunque li abbia fatti girare, partirono infatti molti anni prima.
Detto questo: si ebbero dubbi, anche da queste parti, circa l’opportunità che il presidente del Consiglio dovesse dotarsi di un Lodo Alfano per poter governare sino a fine mandato. Dubbi legati, per incredibile che sia, alla consapevolezza che il «Berlusconi-Mills» appariva in assoluto come il procedimento più ridicolo e inconsistente tra quelli che Silvio Berlusconi aveva subito da 16 anni a questa parte; si riteneva che gli imputati potessero anche andare tranquillamente a sentenza perché avrebbero incassato un’assoluzione inevitabile. Questo ragionamento, da Paese normale, crolla alla luce dell’incredibile sentenza di ieri. Un altro errore fu il pensare che la scelta di ricusare il giudice Nicoletta Gandus servisse solo ad arroventare inutilmente gli animi, ritenendo che neppure Stalin avrebbe potuto avallare le tesi inconsistenti di una pubblica accusa al cui confronto, Nicoletta Gandus, sembrava comunque un miracolo di equilibrio.
Fu, appunto, un errore.
Erano dubbi e ragionamenti da Paese normale, appunto: David Mills, infatti, e l’abbiamo appreso ieri, è stato condannato sulla stessa evanescente base per la quale doveva essere assolto, anzi, mai processato.

Dare ragione a Silvio Berlusconi e al suo Lodo, in questo quadro, non piace affatto.

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