Cultura e Spettacoli

Una processione di zombie convinti di essere «classici»

Se il Salone del Libro di Torino fosse esistito negli anni Trenta avrebbe salvato delle vite umane, perché i tedeschi ti ci avrebbero deportato anziché mandarti in un campo di concentramento, peggio che stare a casa, ma sempre meglio di Auschwitz. Invece qui la gente viene spontaneamente, come tra poco andrà al mare, magari a piedi, viste le conferenze con titoli radical-prodiani come «Il bello della lentezza, la filosofia dell’andare a piedi e in bicicletta al tempo del Suv». Sarà per questo che ogni anno il mostruoso ammasso moribondo di stand è tumulato nel Lingotto, sarà per questo che mi coglie un senso di nausea ogni volta che finisco qui dentro, dove lo spettro degli Agnelli si aggira per i padiglioni, una retorica vaporizzata da Fiat New Age aleggiante nei corridoi, sui libri, nei loculi degli espositori più sconosciuti, negli incontri ravvicinati del terzo tipo con gli autori che non vorresti mai incontrare, nel girovagare sonnambolico dei visitatori e degli addetti ai lavori funerari.
È per questo che colorano i saloni, la Sala Blu, la Sala Rossa, la Sala Gialla, per farli sembrare un allegro Kindergarten o l’ingrandimento in scala di una camera da letto di Malgioglio mentre, varcata la soglia, si celebrano omelie da brivido, per nascondere paradossalmente la morte come Andy Warhol, che la rappresentava nelle sue electric chairs intonate al colore delle tende. Molti standisti invece si sono adeguati e listati a lutto, è nero Rubbettino, è nero Aragno, è nero Gaffi, è nero il buco nero di Fazi, è nera la Fandango ed è nera Nottetempo, dove c’è anche uno standista nero vestito di nero. Il simbolo del salone invece è un albero, identico a quello di Avatar.
E ci mancava solo l’India, quest’anno, come «Paese ospite» del Salone (ma perché deve esserci un Paese ospite?). Grazie all’India, tra l’altro, il salone è più radical chic e sdilinquito del solito. Si va dalle conferenze sulle «tecniche mnemoniche dei pandit» ai testi vedici, con tanta spiritualità a buon mercato profusa nelle sale e nel caffè e nelle sporte di libri. Senza dire dei take-away gastro-meditativi che vengono recapitati negli stand dalle standiste più attive, incaricate del mangime. Si possono ascoltare «le più belle pagine di Gosh e Deshpande» e fare mirabili incontri con altri venerabili scrittori e scrittrici come Sahitya Akademi e Tishani Doshi e Kiran Nagarkar e Kiran Desai. E ovviamente al centro di tutto c’è «la condizione delle donne in India» di cui parla Anita Nir e altre chicche come «il sari rosa e il movimento di liberazione delle donne». Ma chi se ne fotte, qui abbiamo ben altri problemi, siamo già alle prese con le donne italiane: se dici a una che è bella, offendi sia le brutte sia le belle, le prime per esserti appellato a una gerarchia estetica le seconde perché sottintendi che non abbiano un cervello. Nessuno spiega a questi scrittori indiani che a noi con l’India i coglioni li hanno già rotti gli occidentali che ci vanno almeno una volta nella vita solo per rovinare la nostra, tornano tutti spiritualizzati e felici di aver ritrovato «se stessi». Insomma, qui abbiamo finito le scorte di attenzione e a guardare quel puntino in mezzo alla fronte, il kumkuman o come diavolo si chiama, ci viene in mente solo il mirino laser di Half-Life 2 quando arrivi nel paesello degli zombi e devi fare fuori tutti per salvarti.
Mi è toccato, non volendo, di scorgere nella Sala Gialla Marco Belpoliti e Mario Calabresi che presentavano il nuovo libro di Antonio Scurati Gli anni che non stiamo vivendo (Bompiani), con Scurati tutto oscurato e adombrato e vestito di nero e in perenne cipiglio da pensatore in crisi e in carriera (due condizioni complementari). È angosciato dal benessere e dal capitalismo che «ci hanno reso privilegiati ma impauriti, demotivati, isterici, qualcosa non torna», forse se si guardasse meno allo specchio e leggesse di più e scrivesse di meno capirebbe cosa non torna. Ognuno ha ciò che si merita, io mi allontano sollevato, felice di non essere lui, e quasi quasi sento un principio di nirvana ma devono essere solo l’alprazolam e il citalopram che fanno effetto.
Così riprendo a muovermi da una sala all’altra, in un brusìo assordante, le voci dei morti, che rende la fiera acusticamente sopportabile solo ai sordi (diversamente udenti secondo i radical chic) entrando e uscendo e ascoltando e dimenticando e mandando giù Xanax e Becks, pur essendo farmacodipendente ma astemio, tanto per differenziarmi dai naturalisti dello spirito che non c’è, e facendo spola allo stand della Newton Compton nel quale sono un readymade, nessuna presentazione de La casta dei radical chic, per carità, solo la mia presenza fisica per far concorrenza alla Sindone, per farmi toccare come una reliquia umana, come un’opera d’arte, come il mongoloide di De Dominicis e comunque sia per dimostrare di avere un corpo, più a me stesso che ai miei lettori. Già che ci sono rilascio interviste a chiunque, non capisco cosa mi chiedono né cosa rispondo ma prendono appunti quindi va benissimo, al Tg1 dico «odio l’India», Elisa della Newton è tutta entusiasta nel comunicarmi che vuole intervistarmi anche Radio Vaticana e per arrivare a tanto devo averla detta grossa, forse dopo una birra di troppo. In compenso intervistato per Radio 24 Gianluca Nicoletti mi prega di non attaccare il Vaticano e quando in chiusura mi chiede un messaggio ecumenico da dare ai miei lettori dico d’istinto: «Non procreate». Allora forse Radio Vaticana mi chiederà di non parlare male di Nicoletti. A un’altra giornalista che mi chiede una definizione della casta rispondo che coincide con «quelli che leggono i libri sulle caste», quindi anche il mio, quanto sono fico e paraculo.
Comunque, a parte i radical chic spirituali sempre durissimi a morire e ormai ovunque sotto tuniche indiane o sotto mentite spoglie, si sono visti i censurati di sempre, due anni fa era il boicottaggio di Israele, oggi è il boicottaggio di Amos Oz boicottato da Israele, ossia «vietato» nelle scuole religiose ultraortodosse israeliane e forse gli daranno anche un premio, tanto rumore per nulla. C’era anche Travaglio, il solito censurato nella sala più grande, quella dei Cinquecento, e Saviano che domani verrà o non verrà, insomma si farà attendere, da chi resta perché io me ne vado. Nella fuga mi appaiono ancora diversi zombi-chic della serie «A volte ritornano», non solo Vassalli che riesuma il cadavere di Giulio Einaudi per rimproverargli di averla data a Berlusconi non dandola a Dalai, ma per esempio lui: Alberto Bevilacqua. Sparito dalla televisione, chi se lo ricordava più? Finalmente tumulato in un «Meridiano» anche lui, perché un «Meridiano» ormai non si nega a nessuno, e quando ti danno un «Meridiano» è l’infinocchiamento massimo e l’estrema unzione, so che alla Mondadori a un certo punto ti chiedono: «Preferisci essere cremato o vuoi un “Meridiano”?».
Tanto un «Meridiano» mica è la «Pléiade» Gallimard, è piuttosto un modo gentile per toglierti dalle palle rilegandoti in una bara di cartone, e dopo un’ora di fila e prima di defilarmi riesco a prendermi un hot-dog e a vedere Antonio Franchini recitare le esequie al Caffè Letterario del Salone, sembra il Maurizio Costanzo Show dei vecchi tempi o una camera ardente allestita in un autogrill dove Bevilacqua, come imbalsamato nella sua bevilacquità, è uguale al Bevilacqua di quando, tra i radical chic intellettuali, si diceva, per declassare uno scrittore ambizioso: «Ma che sei, Bevilacqua?».

Che dire? Speriamo meridianizzino presto anche Saviano, Scurati, Ammaniti, Veltroni, Scalfari e tutte le altre signore, così facciamo una bella festa e poi festa finita e amen.

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