Occhi bassi, volto teso, pullover viola, camicia a righe scure. Ieri mattina Raniero Busco, alle 9 e 20, è entrato nella sezione A dellaula bunker di Rebibbia come imputato di omicidio nel processo iniziato a Roma quasi 20 anni dopo il delitto di via Poma.
Un ingresso in unaula gremita di giornalisti e anche di studenti di giurisprudenza della Sapienza, in attesa che si celebrasse lavvio di un processo che potrebbe chiarire definitivamente quanto avvenuto il 7 agosto del 1990 in un condominio signorile nel quartiere Prati, quando Simonetta Cesaroni venne uccisa a coltellate. Busco ha preso posto nella prima fila dei banchi. Con le mani in tasca ha seguito, senza parlare, le operazioni che precedono lavvio delludienza. «Sono tranquillo? Beh, direi che questa è una parola grossa», risponde, senza troppa voglia, alle domande dei tanti cronisti presenti. La sua espressione, con il volto tirato per una giornata attesa da mesi, non nasconde la tensione. Al suo fianco, una presenza costante: la moglie: Roberta Milletarì. Golf grigio, capelli biondi mossi e un filo di trucco, Roberta non perde di vista un attimo il marito.
Gli si siede poco lontano, per lintera udienza non allontana il suo sguardo da Raniero. «La nostra è una storia incominciata nel 1991 - racconta stringendo la mano al marito -. Ci siamo sposati nel 1998 e abbiamo due gemelli che ora hanno 8 anni e ai quali abbiamo dovuto accennare a questa vicenda. Ci hanno anche chiesto come mai Simonetta fosse sola in quellufficio quel lontano giorno di agosto. Ovviamente, non gli abbiamo detto che venivamo qui per il processo. Sono arrabbiatissima ma molto combattiva».
Raniero la guarda e ammette «è importante avere donne così» al proprio fianco.
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