«Spero che la verità venga a galla. Mi auguro che il testimone americano venga in Italia per la quarta volta a ribadire ciò che ha già dichiarato, cioè che quella notte non ero io alla guida». Il destino di Friederich Vernarelli, lautomobilista trentaduenne che a bordo della sua automobile, travolse e uccise nella notte tra il 17 e il 18 marzo scorso in lungotevere degli Altoviti, vicino a Castel SantAngelo, due turiste irlandesi, Mary Clare Collins e Ann Elizabeth Gubbins, di 27 e 28 anni - è appeso a un filo. Che sembra farsi sempre più sottile senza le dichiarazioni del superteste americano. Lunico che ha assistito al disastro stradale avvenuto nei pressi dellincrocio di piazzale Pasquale Paoli, causato dallalta velocità con cui procedeva il conducente. Il solo, pertanto, che potrebbe testimoniare che alla guida dellauto killer cera uno dei due ungheresi che viaggiavano a bordo in compagnia di Vernarelli. Una deposizione che, se venisse fornita, scagionerebbe proprio questultimo dallaccusa di duplice omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale, omissione di soccorso, guida in stato di ebbrezza e rifiuto di sottoporsi allesame delle urine, contestategli dal pm Andrea Mosca. E le parole di speranza sono state pronunciate, ieri mattina, fuori dal Palazzo di Giustizia, proprio dal ragazzo, al termine della prima udienza a suo carico dinnanzi al giudice monocratico Anna Maria Pazienza, alla quale è affidato il processo. Che è iniziato con la costituzione di parte civile dei familiari delle vittime e laccoglimento responsabilità civile della compagnia di assicurazione «Direct Line» e dellassociazione «Il Cerchio», una onlus che risulta titolare dellautomobile con cui avvenne lincidente, gestita dalla madre di Vernarelli.
E fuori dalla cittadella giudiziaria di piazzale Clodio, dopo aver assistito «impassibile» allavvio del processo, durato appena trenta minuti e rinviato al 7 novembre prossimo, il giovane imputato, accompagnato dal suo difensore Giovanni Marcellitti, ha ricordato ai giornalisti i suoi sei mesi da incubo trascorsi in una cella di quattro metri per quattro, da cui poteva uscire per soli quindici minuti al giorno: «Durante la mia detenzione, dove ero tenuto in regime di isolamento in una stanza con una piccola finestra, non ho dormito per un mese e mezzo. Cercavo di tenere la mente libera, dedicandomi alla lettura e alla scrittura, anche se la biblioteca del carcere era poco fornita. Ho pensato ogni momento - ha confidato - a quello che è successo quella sera, alle due ragazze, a cui sono rivolti tutti miei sogni e pur non essendo cattolico, ho iniziato a pregare». E in merito alla disposizione del Tribunale del Riesame che gli ha concesso, dal primo settembre, gli arresti domiciliari, ha sottolineato: «È ovvio che a casa sto molto meglio, anche se continuo a pensare ogni minuto a quanto è accaduto. Ho ricordi a sprazzi di quella notte, come limmagine di me con la testa appoggiata al finestrino dellautomobile. Ma sono sicuro che piano piano la verità uscirà fuori».
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