Se un ispettore del ministero dell’Istruzione, scegliendo una poesia di Montale, per leggerezza o distrazione, non ne riconosce il destinatario, viene licenziato; se uno studente viene sorpreso a copiare, se ne invalida la prova d’esame; se un calciatore sbaglia un rigore, squalifica la squadra e compromette irrimediabilmente il futuro dell’allenatore; se un medico causa menomazioni, con operazioni inutili e ingiustificate, viene arrestato.
Tutti episodi realmente accaduti, negli ultimi tempi. Insomma, in molti casi, e non sempre per peccati gravi (può Donadoni pagare per un rigore mancato da Di Natale?), e non per pura dimostrazione, ma per principio (come si diceva una volta), chi sbaglia paga; e si applica il principio di responsabilità, particolarmente importante per i medici, ma anche per educare alla serietà, alla lealtà o all’onestà. Condizioni non proprie, a esempio, per chi copia una prova altrui. Come si spiega allora che, oltre alla tardiva ammissione (non forse con pentimento, ma con una «legenda» allegata all’ultima edizione di un suo testo) di aver riprodotto integralmente parti di libri altrui senza citare la fonte, un professore, naturalmente vocato a sanzionare chi copia, non debba vedere messo in discussione, e perfino compromesso, il proprio magistero? Questo comportamento va considerato una leggerezza, magari con l’aggravante dell’irresponsabilità o della inconsapevolezza (se a scrivere o compilare il libro fosse stato un assistente, come spesso accade, e non abbastanza diligente da impedire lo scandalo accertato), o una grave mancanza deontologica. E, certo, compromettente per il ruolo di magister.
Può un insegnante consentire a sé ciò che non consentirebbe ai suoi allievi? Può impunemente copiare? Raggiunto lo status di «barone», dunque, tutto è permesso? Allo stato della questione, nell’acclarata impunità del soggetto (che non è Berlusconi!) sembrerebbe di sì. I libri incriminati, oltretutto, si viene a sapere, sono stati presentati come titolo per vincere la cattedra; e l’esito positivo del concorso non sembra poter essere ribaltato dalla scoperta che le pubblicazioni, obbligatoriamente «scientifiche», non erano originali. Dunque la «frode» in atti, come sarebbe per un vino adulterato, non comporta l’invalidità del concorso. Allora si può immaginare un processo penale, con un risarcimento e la sospensione dalla funzione, come accade (è accaduto) per un sindaco che ha usato l’auto di servizio per andare in vacanza? Occorrerebbe un esposto della parte supposta lesa. Ma se anche essa promuovesse l’azione, ciò non comporterebbe la sospensione dall’insegnamento del riconosciuto reo, che dovrebbe moralmente e materialmente risarcire la sua fonte, ovvero l’autore del testo copiato.
Ma, superato questo ostacolo e ristorato l’autore defraudato, nessuno può impedire l’esercizio della professione al poco esemplare professore. Il quale, intanto, riconosciuti il dolo o la «svista», potrebbe rivendicare l’assoluta originalità (oltre a ciò che potrebbe essere ovviamente condiviso) della parte, si spera prevalente, non copiata (salvo che ne sia ancora ignota la fonte), e ritenere quella copiata inevitabilmente compilativa, così come in molte discipline gli argomenti generali, ineludibili, sono parafrasati da un testo all’altro: pensiamo ai teoremi consolidati o alle biografie di artisti e letterati; ma diverso è il caso per materie e soggetti meno «positivi», come appunto è la psicologia.
E dunque? Il rettore dell’Università fa il pesce in barile, poi, pilatescamente, dichiara, prove alla mano, che soltanto la comunità scientifica, i titolari di afferenti discipline, e non l’ateneo, possono aprire il caso, con un processo «etico-ideologico», e chiedere la sospensione del collega. Non vanno tutelati gli allievi, dunque, ma la «scienza» nella sua astratta dignità.
Vittorio Sgarb
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