Chandran Kukathas è persona cortese, affabile, mai interessata ad alzare barriere ed enfatizzare distanze. Cresciuto a Ceylon in una famiglia della minoranza tamil e poi trasferitosi in Australia, insegna filosofia politica alluniversità di Oxford. Portato al dialogo più che al conflitto, ha elaborato una teoria libertaria originale grazie anche a un continuo confronto con amici e colleghi di orientamento più mainstream: da Will Kymplicka a Brian Barry, per limitarsi a due studiosi radicati in quella linea di pensiero che ha avuto in John Rawls lespressione più significativa.
Esiste un nesso fra lattitudine al dialogo e il contenuto delle tesi di Kukathas? Sicuramente, come emerge dalla lettura di Arcipelago liberale. Una teoria della diversità e della libertà, libro del 2002 ora edito da Liberilibri in collaborazione con IBL (euro 15). È un testo che prende di petto le sfide della società multiculturale e dei grandi processi migratori, riattualizzando antiche controversie. Lidea di fondo è che una società aperta non può essere tale se nega agli individui la possibilità di proteggere le proprie tradizioni. Ma un altro principio-base è che al centro della scena sono le persone, non i gruppi: e ciò porta a rigettare lidea di «diritti collettivi», «quote» o «azioni positive». Il cardine è il diritto individuale alla libertà di associazione, da cui egli deriva la legittimità di ordinamenti molto diversi. Per Kukathas, «in una società libera, vale a dire una società liberale, ci saranno molteplici autorità, ognuna indipendente dalle altre e sostenuta dal tacito consenso dei soggetti che ne fanno parte», perché «una società liberale è contraddistinta dal rispetto per lindipendenza delle altre autorità e da una riluttanza a intervenire nei loro affari». Proprio enfatizzando tali temi, egli mostra come luniverso concettuale dei liberal sia destinato a produrre esiti intolleranti, che mettono a rischio le libertà fondamentali.
Le tesi di Rawls sulla giustizia, a esempio, producono fatalmente leffetto di contestare i diritti di quelle «minoranze religiose che si oppongono al mondo moderno e che desiderano condurre la loro vita separandosene». Mentre i liberali classici non hanno nulla da obiettare a forme vitali differenti e a culture lontane, molti progressisti ritengono che in questi casi lo Stato possa intervenire a detrimento dellautonomia delle comunità familiari. Kukathas non sposa un relativismo radicale che neghi il confine tra giusto e ingiusto. La violenza rimane oggettivamente violenza, anche quando cerca legittimazione in tradizioni secolari. Ma ciò non comporta lattribuzione al ceto politico del diritto di costruire la società secondo le sue preferenze. Al contrario, è bene «assumere un atteggiamento più scettico verso il potere costituito, considerarlo (nel migliore dei casi) niente più che il risultato del compromesso fra popoli diversi, con modi di vita diversi, che hanno trovato le condizioni in base alle quali coesistere».
Forse questo è il punto cruciale.
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