Proust, un uomo di mondo alla "Recherche" tra i salotti

Il ritratto di Giuseppe Scaraffia indaga il lato dandy dello scrittore che finì per chiudersi in una stanza

Proust, un uomo di mondo alla "Recherche" tra i salotti

Anche per chi, come me, ammiratore da sempre di autori come D.H. Lawrence e Henry Miller, non ha mai dato nessuna prova di fede proustiana, questo libro di Giuseppe Scaraffia intitolato semplicemente Marcel Proust (Bompiani, pagg. 272, euro 16), che esce nel centenario della morte dell'autore della Recherche, è fonte di un piacere intellettuale che sconfina nella delizia, nel puro piacere curioso e mondano della lettura. Giuseppe Scaraffia sa come attrarre il lettore: francesista e saggista, mette sullo sfondo lo studioso, e lascia giganteggiare lo scrittore acuto, raffinato, indagatore della figura del dandy, e, per come lo si può essere nel Terzo Millennio, dandy lui stesso.

La prima parte del libro si apre con una festa: e poi di feste, di salotti, di grandi alberghi, di grandi cene ne incontreremo a decine e decine, come se la vita si manifestasse al massimo nel suo rapporto tra verità e finzione proprio in questi riti mondani. Siamo negli anni Trenta, la principessa Jean-Louis de Faucigny-Lucinge dà una festa a tema sulla moda tra 1880 e 1905, e già alcuni dei suoi invitati si presentano travestiti da personaggi della Recherche. Nella sua opera colossale, Proust aveva trasferito la nobiltà in arte, ora la nobiltà trasferisce la sua arte in mondanità. Il ciclo si chiude perfettamente.

Il giovane Marcel Proust, figlio di un medico e scienziato borghese e della discendente di una famiglia di agenti di cambio ebrei, entra nel giro dell'aristocrazia, facendosi apprezzare per le sue qualità di uomo di mondo, conversatore brillante, misterioso, notturno, «dolente, malaticcio, pallidissimo, traslucido, lunare», come lo descriverà Maurice Duplay. La farfalla, sorta di arcangelo inquieto e inquietante, ha scelto gli aristocratici: il migliore si mescola a loro, gli unici la cui superiorità ha qualcosa di naturale e di immotivato. Poi la farfalla, invertendo il corso delle cose, si muterà in crisalide, nella più severa delle metamorfosi. Chiudendosi in sé, nel buio soffocante della sua malattia e della sua camera, consacrando la sua vita alla composizione di un'opera-mondo come Alla ricerca del tempo perduto, con i suoi sette volumi, da La strada di Swann uscito nel 1913 sino a Il tempo ritrovato, uscito postumo nel 1927. Una vita spesa tra i salotti più celebrati dell'epoca, che Scaraffia descrive con un brio e una simpatia ironica e complice, tra Madame Lemaire, Madame d'Aubernon, tra la contessa de Chevigné nata Sade, discendente della Laura petrarchesca e del Divino Marchese e il conte Robert de Montesquiou, dandy e poeta, finisce per chiudersi, avvilupparsi in se stessa... In un appartamento borghese, anzi in una sola camera in penombra, con tappeti inchiodati al pavimento, pareti rivestite di sughero, e capsule di cotone imbevute di cera nelle orecchie perché il distacco dal mondo sia ancora più completo. Eppure tutto quel mondo, fatuo e come sopravvissuto, impresta i suoi volti ai personaggi principali della Recherche: Madame Verdurin, la duchessa di Guermantes, il conte Charlus non sarebbero nati se Proust non avesse cercato e frequentato proprio quel mondo.

Oltre che con gli aristocratici, Proust entra in contatto con politici, musicisti, scrittori: Anatole France, Oscar Wilde, di cui ricorda solo la cravatta color tortora, D'Annunzio, che si esibisce in una battuta tagliente sul povero Fogazzaro, Gide, con cui discute di «uranismo», come allora veniva definita l'omosessualità passiva. E incontra amici come Reynaldo Hahn, musicista, con cui ha la prima relazione omoerotica: è lui che racconta il primo affiorare della cosiddetta memoria involontaria nel futuro scrittore, incantato e perduto davanti a un roseto nella casa di campagna di Madame Lemaire, o come Alfred Agostinelli, l'autista, e Albert Nahmias, il segretario, entrambi confluiti nel personaggio di Albertine. Ma centrale nella sua vita è la madre, Jeanne Weill, che, conscia del genio del figlio, lo tratta tuttavia come un bambino ritardato: il bacio mancato di mammina a sette anni è fonte di un trauma inguaribile per lui, che alla domanda del questionario: qual è il massimo della infelicità, risponderà: essere separato da mia madre. Prima di morire accudito dalla fedele Céleste, l'ultima parola che pronunciò fu: mamma.

Proust amava dare appuntamenti all'hotel Ritz all'una di notte, dissipare tutto il denaro in mance, come la volta che, a tasche vuote si trovò a chiedere in prestito al portiere 50 franchi, e poi glieli ridiede dicendogli: «Tanto erano per voi!». Amava vestire alla moda della sua giovinezza, foderava di pelliccia i soprabiti e temeva il cilindro in testa perché aveva sempre freddo. Eppure quest'uomo di cui Cocteau giudicò vacillante la voce e Colette il passo di «giovanotto di cinquant'anni», divenne l'autore in cui moltissimi riconoscono il più grande romanziere del secolo scorso: tramite la metamorfosi di cui ci parla con acutezza e grazia Giuseppe Scaraffia.

C'erano in lui uno squisito e estenuato uomo di mondo, e forse un uomo incalzato da un «vento furioso» come vide Colette. Un artista inquieto e inquietante, che sapeva, come scrisse nel saggio Contro l'oscurità, che «se il poeta percorre la notte, deve farlo come l'angelo delle tenebre, portandovi la luce».

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