Provenzano salvo per incastrare Contrada

Gian Marco Chiocci

Quando l’ex funzionario della Criminalpol e del Sisde, Bruno Contrada, durante un’udienza del suo interminabile processo prese la parola per dire che preferirono arrestare lui anziché l’eterno latitante Bernardo Provenzano, venne preso per matto. Col trascorrere dei minuti, però, lasciarono il segno le parole di quel superpoliziotto arrestato nel 1992 per collusioni con Cosa nostra, sbattuto 31 mesi in carcerazione preventiva, condannato a dieci anni in primo grado, assolto con formula piena in secondo, costretto a un nuovo processo della Cassazione e ricondannato alla stessa pena nell’appello bis. Lo stesso identico segno che ricompare oggi, a distanza di 14 anni, alla notizia dell’arresto di Carmelo Gariffo, nipote del boss, considerato il principale postino dei noti bigliettini. Decrittando alcuni «pizzini» scoperti dalla polizia nel covo di Corleone, infatti, il pool di magistrati palermitani coordinati dall’ottimo aggiunto Giuseppe Pignatone ha scoperto che Gariffo avrebbe ricoperto, per il Padrino, il ruolo di «segretario particolare» fissando appuntamenti, smistando pizzini delicatissimi, organizzando controlli medici e summit.
Bene. Del carneade Gariffo e di come attraverso lui, dal gennaio al dicembre del 1992, era arrivato a un passo da Provenzano, ha parlato ai giudici lo stesso sbirro imputato. E non solo lui. Ecco cos’ha raccontato l’ex funzionario della Squadra Mobile, della Criminalpol e del Sisde: «Ero alla guida di una squadra speciale composta da 15 persone, indagavamo su Provenzano con una pista molto seria che ci aveva portato nella seconda metà del 1992 nella zona del trapanese. Attraverso una serie di intercettazioni sull’utenza cellulare di Carmelo Gariffo, nipote e tuttofare del boss, individuammo una serie di società sanitarie che facevano capo a Provenzano e che si occupavano di forniture per attrezzature ospedaliere. Il cerchio si stava chiudendo anche perché - ha proseguito Contrada - attraverso altre indagini, avevamo provato che la moglie e i figli del boss, prima di tornare a Corleone, avevano vissuto proprio dove noi stavamo per assicurare alla giustizia il capo di Cosa nostra. Inspiegabilmente, però, contemporaneamente al mio arresto quel gruppo di lavoro venne sciolto...».
Nel corso del dibattimento Bruno Contrada ha aggiunto numerosi dettagli di quell’indagine ma quando in cuor suo s’è accorto che, come al solito, in pochi gli avrebbero creduto, sperò che almeno avrebbero dato retta a Roberto Scotto, funzionario della Criminalpol, responsabile del «gruppo Provenzano» che aveva sgobbato insieme a lui. Scotto venne chiamato a testimoniare. Confermò la versione dell’imputato eccellente, che poi ha ribadito così al Giornale: «L’indagine su Gariffo ci aveva dato ottime indicazioni per risalire al boss, quindi nel momento in cui la famiglia di Provenzano tornò a Corleone all’indomani delle stragi del ’92, decidemmo di fare una perquisizione un po’ particolare. Sapevamo che non avremmo trovato niente in quell’abitazione ma a noi interessava avere il riscontro a quanto la pista Gariffo già indicava. Volevamo le voci dei figli e della moglie, sì le voci, perché così avremmo saputo dove i figli erano cresciuti durante la latitanza. Andammo con i registratori in tasca - continua Scotto -, provocammo artatamente una lite in famiglia eppoi facemmo ascoltare i nastri a un esperto linguista di dialetti siciliani. L’inflessione della moglie del boss e dei figli evidenziò una permanenza nella provincia di Trapani dove, giust’appunto, il nipote del boss ci stava portando per altre strade». L’indagine prese un’accelerazione improvvisa. La Squadra-Provenzano si trasferì tra Alcamo, Trapani e Mazara del Vallo. L’attenzione si concentrò sul figlio più piccolo del Padrino che venne riconosciuto, in foto, da una maestra. A cascata altri insegnanti riconobbero senza esitazione i due rampolli di Provenzano. «Attraverso una parrucchiera arrivò anche la conferma che la signora Provenzano, sua cliente fissa, abitava vicino al negozio. Era fatta». Purtroppo, però, l’indagine si arenò perché incombeva, in parallelo, l’onda lunga di un’altra inchiesta basata su quei pentiti che lo stesso superpoliziotto aveva perseguito e arrestato e che puntava a dimostrare ciò che il processo, nonostante la condanna, non è riuscito a provare: che l’ex funzionario del Sisde era colluso con la mafia. Agli inizi di dicembre del 1992 Contrada venne allontanato dal Sisde, Roberto Scotto richiamato a Roma per motivi di opportunità. Il gruppo di lavoro venne sciolto, l’indagine cestinata.

Roberto Scotto è di poche parole: «Io non voglio dire che hanno preferito Contrada a Provenzano. Dico solo che sarebbe stato imbarazzante spiegare all’opinione pubblica perché si arrestava per mafia l’uomo che aveva arrestato il Capo di quella stessa mafia».
Gian Marco Chiocci
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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