Leggo un'ulteriore puntata del costante certame che da tempo prosegue e che meglio aiuta (in prospettiva) a definire la posizione del centrodestra locale in materia di politica artistica e culturale in genere. Vi trovo ambedue (Lussana e Gregorini) più convergenti (pur con sfumature diverse) che in altre circostanze, per esempio in relazione al previsto effetto derivante dall'ingaggio di Marco Goldin (il re Mida delle Mostre). Sicuramente la monumentalità del valore acquisito per tradizione laddove viene somministrata popolarmente in forme accattivanti di forte richiamo, è destinata ad incontrare (fino a prova contraria) successi di pubblico cui non si può rinunciare se si vuole contribuire a rendere l'arte popolare (e non solo quella che per antonomasia si è convenuto di chiamare in tal modo). Probabilmente tutto il passato (per farlo conoscere il più possibile) dovrebbe essere coinvolto in una commercializzazione vertiginosa.
Il suo degradarsi (a fin di bene) potrebbe proprio favorire il ridimensionamento (se non l'accantonamento) di quella frattura originaria che l'arte esplicitamente incontra da quando essa non è più la nervatura-mediazione fondamentale nella nostra società. G.W.F. Hegel notò questo in età romantica rimproverando i suoi compatrioti per il loro sforzo splendido e generoso insieme per cercare di riportare l'arte in quanto tale al centro di una società.
Per lui il mondo «filosofizzato» lo si poteva intendere solo ricorrendo ad un altro tipo di sapere: quello dell'economia politica, della politica stessa, della religione e della filosofia). Il mondo, quello nostro, dell'impresa tecnico-scientifica, è il mondo della sperimentazione, un mondo intellettualizzato, che configura le proprie forme originali (anche quelle artistiche) in un tipo di ricerca sempre più spiccata ed approfondita. È quindi evidente che una frattura di fondo, registrata due secoli fa, incide ancora pesantemente in quel circuito di comunicazione del fenomeno artistico in cui sono sempre contemporaneamente presenti i fruitori e gli artisti veri e propri. Nell'ambito di questo rapporto (non semplice ma sufficientemente scambievole per antichissima tradizione) si è venuta costruendo tutta una ramificazione intermediaria di cui «gli animali politici» hanno finito con il tenere direttamente o indirettamente le fila. Il che non è strano e per la verità si potrebbe qualificare come naturale. Purtroppo, come si è detto, l'arte (per destino storico) è stata declassata ed è diventata il reame appagante (per i più diversi motivi, alcuni dei quali tutt'altro che commendevoli) di tutto un mondo di imbonitori, guitti, pitonesse, comunicatori, operatori culturali e altri molti (insomma tutta la bella e varia umanità che ha reso artificioso e taroccato, per esempio, - a causa delle direttive politiche ricevute dai tenutari dell'industria culturale - ogni certame letterario, pittorico ecc.). So benissimo, come lo sapete Voi due, di vivere in una città difficile che possiede una stratificazione di civiltà all'interno della quale l'arte è stata raramente sentita come popolare (cioè, dunque, non è stata per lo più profondamente partecipata). E questi sono problemi derivanti dalle carenze dell'essenziale «sovrastruttura» politica che ha fatto sentire l'arte come una sua emanazione (o comunque l'ha mascherata e fatta sentire invece come un qualcosa di genuino mentre era invece resa artefatta dalle opportune mediazioni). Il gusto popolare può essere modesto o, comunque poco disciplinato, e tuttavia avverte quasi subito che c'è qualcosa che non va (e finisce dunque con il non riconoscersi in quel prodotto non consentaneo al suo sentire individuale e sociale). Sì dunque alla cultura di massa (pur riconoscendo senza false remore che l'artista autentico è sempre piuttosto eccentrico rispetto a quella medietà del sentire che è il vero sentire sociale preponderante. L'artista autentico vede ciò che altri non vedono e dunque può benissimo non convincere per lungo tempo). Sì ad un atteggiamento liberale che tolga peso specifico alle miriadi di mediazioni culturali che, volontariamente o involontariamente, sembrano produrre più confusione che altro (soprattutto se nascono da quella tecnica maliziosa del «saper mettere gli uomini opportuni nei punti giusti»).
«Il pubblico cè se lofferta darte è più popolare»
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