Pupi Avati: "Ecco il mio De Sica drammatico"

Il regista sta finendo Il figlio più piccolo, nel quale l'attore romano è un immobiliarista disperato. "Dopo Abatantuono e Orlando, con Christian chiudo la trilogia sulla paternità"

Pupi Avati: "Ecco il mio De Sica drammatico"

Roma - Infaticabile Pupi Avati. Era a Tivoli ieri mattina, sotto la pioggia, a girare le scene finali de Il figlio più piccolo, opus n. 41 includendo i film per la tv, e ha già bell’e pronto un altro copione. Dopo la «doppietta» in costume Il papà di Giovanna e Gli amici del bar Margherita, il regista bolognese torna a ritrarre alla sua maniera, immergendosi ancora nell’amata Bologna, l’Italia contemporanea. Il figlio più piccolo appartiene all’Avati più duro e impietoso, se preferite cinico e pessimista, ma pur sempre riscaldato da un’osservazione acuta sulla natura umana. La novità è la presenza di Christian De Sica nel suo primo ruolo decisamente drammatico, fuori dalle dinamiche comicarole dei cinepanettoni. Sembrava che il gran passo dovesse avvenire con L’età dell'oro di Antonello Grimaldi, dal romanzo di Edoardo Nesi sul canto del cigno di un industriale tessile fiaccato dal cancro; invece Avati ha anticipato tutti, cucendo attorno al 58enne mattatore il ruolo di un immobiliarista truffaldino e pasticcione, pronto a tutto, anche a calpestare gli affetti familiari, per restare a galla.

Di nuovo un padre, si direbbe il coronamento di una trilogia sul tema.
«Sì, forse. Se il Diego Abatantuono di La cena per farli conoscere era inadempiente e il Silvio Orlando del Papà di Giovanna iperprotettivo, questo qui è proprio abietto. Il peggio dei tre. È un uomo che identifica nel denaro l’unità di misura del mondo. Un vizio tipico dell’Emilia, dove le persone contano per i soldi che hanno».

Ci fa capire meglio?
«Premetto: non mi sono ispirato alla cronaca giudiziaria recente. Non si parla né di Ricucci né di Coppola. Tanto meno è una parodia, anche se ci saranno risvolti comici, addirittura grotteschi. È la storia di un immobiliarista romano in crisi. Ha perso un sacco di milioni nel tracollo finanziario della sua holding, una struttura fatta di scatole vuote, nata rubando letteralmente due appartamenti alla moglie che vive ancora a Bologna coi due figli. La bancarotta è alle porte, con essa forse la prigione. Non gli resta che dar retta all’amico commercialista».

Cioè Luca Zingaretti coi baffi, un altro squalo delle finanza. Una specie di Iago dei giorni nostri: così lo descrive l'attore.
«Sì, l’uomo è diabolico. Consiglia al suo cliente di intestare la società con tutte le perdite, appunto, al figlio più piccolo. Un ragazzo gentile e un po’ ingenuo che frequenta il Dams. Il film è la cronaca di una caduta economica, di un raggiro familiare. Se altrove, ad esempio in Regalo di Natale, ho raccontato l’amicizia tradita, qui, nel descrivere il rapporto tra un padre e un figlio che quasi non si conoscono, racconto la famiglia tradita».

Non finirà, bene, immagino.
«Non me lo chieda. Perché rovinare la sorpresa allo spettatore?».

Laura Morante è la moglie abbandonata, vero?
«Sì, una donna strana, un residuato di quella cultura dell’utopia dura e candida che stenta a trovare una sintesi di fronte al cinismo dei due affaristi. È la mia seconda volta con Laura, bravissima».

Ha sentito cosa dice di lei? «Nel primo, “Il nascondiglio”, mi ha chiesto di non essere bella, nel secondo di non essere intelligente. Ho paura di cosa mi chiederà in futuro».
«Ho sentito. Ma scherzava. Del resto, si sa che mi piace spiazzare il pubblico, pure i miei attori: li sfido a tirar fuori corde diverse, fuori dai cliché abituali, da qualche pigrizia interpretativa. Nel caso di De Sica, che conosco sin dai tempi di Bordella, 1976, dove giovanissimo faceva una particina, il mio problema è semplice: renderlo verosimile in quel ruolo, tenendolo a freno, evitandogli di cadere nelle stereotipo delle farse che l’hanno reso così popolare. Un po’ come togliere il dolce a un bambino».

Che è quanto lei si propose di fare nel 1996 con Massimo Boldi, ingaggiandolo per “Festival”, storia amara ambientata alla Mostra di Venezia.
«Boldi è un ottimo attore. Ma lì l’operazione non funzionò. Colpa mia. Privarlo dei suoi punti di forza, di una certa follia surreale fu una forzatura».

Nastri d’argento. Sei candidature per “Il papà di Giovanna”. Eppure lei a Villa Medici...
«... ho detto semplicemente era un po’ che mancavamo, che finalmente si sono ricordati di me.

Essere tornato candidabile, dopo tanti anni, mi ha fatto piacere. Ringrazio per l’acume».

Se abitasse ancora a Bologna, voterebbe Guazzaloca?
«Non faccio nomi. Ho un caro amico a Bologna, e lui lo sa».

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