Quale imparzialità: gli arbitri sono di sinistra Mimun: "La multa dell'Agcom è intimidatoria"

Quirinale, Agcom e Consulta dovrebbero essere organismi super partes. Invece fanno spesso il gioco dell’opposizione. Il direttore del Tg5: "Noi siamo sempre equilibrati. Così si sancisce il divieto di intervistare il capo del governo"

Quale imparzialità: gli arbitri sono di sinistra 
Mimun: "La multa dell'Agcom è intimidatoria"

Roma Nel calcio e in altri sport un elementare criterio di imparzialità impedisce che l’arbitro di un incontro sia della città o della nazione a cui appartiene uno dei contendenti. Che cosa penserebbe un tifoso la cui squadra, giocando contro la Juventus, si vedesse negare un evidente rigore da un arbitro di Torino? Ma la politica, che dello sport mutua spesso il linguaggio, non fa altrettanto con le regole. Eppure l’amministrazione della cosa pubblica qualcosa dovrebbe pur valere in più rispetto a un pallone che rotola inseguito da 22 ragazzotti in calzoncini. O no?

Accade - e il caso Agcom è solo l’ultimo esempio - che gli organismi super partes chiamati a far rispettare le regole base dell’agone politico, nel nostro Paese non rispondano ad alcuno criterio di imparzialità; sicché a ogni metaforico fischio, a ogni fuorigioco sbandierato è inevitabile il sospetto che la partigianeria ideologica piuttosto dell’obiettività abbia gonfiato i polmoni del fischiatore.

Prendete, per l’appunto, l’Agcom, l’agenzia di garanzia per le telecomunicazione che ha l’altroieri stangato Tg1, Tg2, Tg4, Tg5 e Studio Aperto per un totale di 816mila euro per le interviste a Silvio Berlusconi andate in onda la scorsa settimana. A decidere in merito alla presunta sovraesposizione mediatica del premier, impattando in modo violento con i bilanci economici delle cinque testate e con il clima già mefitico della fondamentale campagna elettorale per i ballottaggi di domenica e lunedì prossimi, è stata la commissione per i servizi e i prodotti dell’agenzia, così composta: due membri nominati dalla Camera, e cioè Sebastiano Sortino, in quota Pd, e Gianluigi Magri, in quota Udc; e due membri eletti dal Senato, alias Michele Lauria, in quota Pd, e Antonio Martusciello, in quota Pdl. In pratica tre componenti dell’opposizione e uno solo della maggioranza, alla faccia dell’equidistanza. Per tacere del presidente Corrado Calabrò, nominato nel 2005 su proposta di Gianfranco Fini: un imprimatur che al momento non è proprio una garanzia di filoberlusconismo. C’è da sorprendersi se la votazione di martedì si è conclusa sul 4-1 per la sanzione, con Martusciello a segnare il gol della bandiera del centrodestra?

L’Agcom non è l’unico «fischietto» schierato. Il più importante è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, massimo interprete dell’unità della nazione, che per la verità interpreta con un certo fair play il suo ruolo super partes. Diciamo che l’abito molto inamidato con cui ama vestirsi non gli consente di sbilanciarsi troppo. Ma quel capo di alta sartoria a guardar bene reca pur sempre bene in vista un’etichetta: la premiata sartoria Bottegone. Napolitano è stato parlamentare per cinque decenni nelle fila del Pci, poi del Pds. E se la sinistra lo accusa di troppa accondiscendenza nei confronti del premier, ciò non dimostra la sua imparzialità, semmai il modo in cui gli ex comunisti concepiscono il senso delle istituzioni. Napolitano è anche presidente del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, e per dna politico non certo la figura più adatta a controbilanciare un potere, quello giudiziario, che nel suo complesso più volte negli ultimi anni è stato sospettato di pendere a sinistra.

E poi c’è la Corte Costituzionale, l’organo che fondamentalmente sovrintende al rispetto della nostra carta: 15 membri, 5 di nomina parlamentare, 5 di nomina delle supreme magistrature, 5 di nomina del

presidente della Repubblica (prima Ciampi e oggi Napolitano). Non c’è bisogno della calcolatrice per capire perché la Consulta sia diventata negli ultimi tempi la suprema sbianchettatrice di molte leggi invise alla sinistra.

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