Luca Fazzo
Enrico Lagattolla
È un giorno di sangue, a Milano. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Ennesima lapide degli Anni di piombo. Claudio Varalli - membro dell’Mls, Movimento dei lavoratori per il socialismo - muore 17enne in piazza Cavour, ucciso da un colpo alla testa esploso dall’arma di Antonio Braggion, esponente di Avanguardia Nazionale. Sono le 19.32 del 16 aprile 1975. Sono quelli dell’Mls - scrivono i giudici della seconda Corte d’assise, nelle motivazioni della sentenza depositata l’8 gennaio del 1979 - a iniziare «un’aggressione improvvisa, rapidissima, premeditata e violentissima» ai danni del neofascista. Sono in dieci, gli estremisti di sinistra. Finiranno tutti a processo per lesione aggravate, danneggiamento e porto abusivo di armi improprie, ma saranno salvati dall’amnistia. Tra loro c’è anche un ragazzo che farà strada. È nato a Milano il 25 novembre del 1956. Abita in piazza Sant’Ambrogio, con il fratello Tito e la mamma che è un famoso architetto. Si chiama Stefano Boeri.
Bulloni, spranghe e chiavi inglesi. C’è anche questo nel passato dell’archistar e candidato del Pd alla corsa verso Palazzo Marino. Boeri, all’epoca è uno dei leader al liceo Manzoni dell’Mls, il più stalinista tra i gruppi della nuova sinistra. Quel suo 16 aprile, la sentenza della Corte d’assise lo racconta così. Boeri e gli altri «katanghesi» stanno tornando da un corteo quando in via Turati adocchiano e riconoscono il «nemico» Braggion, che due anni prima è già scampato per un pelo ad un agguato. Il gruppo dell’Mls è ben attrezzato «chiavi inglesi, bulloni, dadi in metallo, un tubo snodabile e un morsetto metallico». Circondano Braggion e iniziano a colpirlo, il fascista si rifugia in auto, gli ultrà continuano a colpire: «non si accontentarono di danneggiare la macchina ma continuano ad infierire contro di lui, già ferito». Fino a quando Braggion recupera la pistola che ha nel cruscotto e spara, uccidendo Varalli. Quando arriva la polizia - sono passati pochi minuti - i ragazzi dell’Mls si danno alla fuga. Un brigadiere «raggiungeva nei giardini pubblici Boeri Stefano, Siciliotti Claudio e Maiocchi Silvano, dopo che gli stessi avevano abbandonato durante il loro percorso numerosi oggetti metallici». Nel parco, gli agenti sequestrano «undici chiavi inglesi e fisse, un bullone con dado, un tubo snodabile in metalo, un morsetto metallico». Boeri e gli altri imputati non rispondono agli interrogatori, perché - spiegano ai pm - «ogniqualvolta un militante viene ucciso, i compagni vengono trasformati da testimoni in imputati». Motivi «politici», in altre parole. Ma per i giudici, la storia è un’altra.
«Le risultanze processuali - si legge infatti nelle motivazioni - consentono, sia pure con enorme difficoltà, la ricostruzione dell’episodio». E «giova subito precisare che, a tale fine, di nessun aiuto appaiono le versioni fornite dal gruppo dei giovani» dell’Mls, «innanzitutto per il loro comportamento processuale, smaccatamente sleale». Boeri e gli altri, dice la Corte, mentono platealmente. E alla fine, pur proclamandosi innocenti, scelgono di evitare il processo: «i suddetti giovani non hanno affatto rinunciato, com’era nelle loro facoltà, all’applicazione in loro favore dell’amnistia».
La sentenza della Corte d’assise non giustifica la reazione di Braggion, e infatti lo condanna a dieci anni per porto d’arma e eccesso colposo di legittima difesa: che verranno ridotti a tre in appello, e infine cancellati dalla prescrizione.
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