Che lingua parlava Cristoforo Colombo? La domanda non è certo gratuita, giacché il grande navigatore, oltre all’italiano (o meglio al genovese), conosceva il latino, il portoghese, lo spagnolo e, naturalmente, l’idioletto in uso lungo le coste della marineria mediterranea, di cui informa più tardi Cervantes nel capitolo XLI del Don Chisciotte, quando scrive che nelle prigioni di Algeri cristiani e musulmani utilizzavano una «lingua che in tutta la Berberia e anche a Costantinopoli si parla tra i prigionieri e i mori, che non è quella moresca né castigliana né di nessun’altra nazione, ma una mescolanza di tutte le lingue, con cui tutti ci capiamo».
Iniziamo con le testimonianze lasciate dal domenicano Bartolomeo de Las Casas, autore della celebre Breve relazione della distruzione delle Indie e dell’importante Storia delle Indie. Suo padre Pedro aveva accompagnato Colombo nel secondo viaggio in America, e quindi rappresenta il trait d’union del legame fra il genovese e Bartolomeo, il quale raccoglie da Cristoforo dichiarazioni e manoscritti e fa conoscere il suo Diario di bordo. Egli considera la lingua usata dall’Ammiraglio incerta e approssimativa, al punto che Cristoforo sembra «essere figlio di un altro idioma, poiché non conosce del tutto il significato dei vocaboli della lingua castigliana né il modo di parlarla». Il giudizio si ripete ogniqualvolta Bartolomeo informa il lettore che sta riproducendo il discorso di Colombo, che per fedeltà pone tra virgolette. Ad esempio, nella Storia delle Indie, quando dice: «Tutte queste sono parole dell’Ammiraglio con la sua modesta e scarsa proprietà di stile, come non fosse nato in Castiglia». E ancora: «Queste sono le sue parole, e difettose in quanto al nostro linguaggio castigliano, che egli non sapeva bene».
Insomma al dotto domenicano non suonava bene lo spagnolo in bocca di Colombo, dove udiva echeggiare accenti stranieri che egli non poté o forse non volle identificare. Le stesse osservazioni valgono per gli autografi dell’Ammiraglio pervenutici, che hanno suscitato l’interesse degli studiosi i quali, dando per scontato che egli sia originario di Genova, si chiedono come mai non esista alcuna lettera scritta nella lingua materna inviata a familiari e amici. È lo stesso Colombo a essere reticente su questo punto: poco dice, e poco sappiamo, sulla sua giovinezza trascorsa nella terra ligure. Tutte le notizie che dà sull’argomento sono in genere false e rispondono a un bisogno di occultamento al fine di ottenere l’importante nomina di ammiraglio: egli vuol far credere di aver studiato presso l’università di Pavia, di aver compiuto importanti imprese marittime al servizio del re Renato d’Anjou o dell’ammiraglio francese Coulon il Giovane e, ancora, di avere una relazione epistolare con il grande Toscanelli, che in realtà non ha mai conosciuto.
Resta il mistero della sua strana lingua. Il custode del convento della Rápida riferisce che, nel 1591, l’anno precedente alla partenza da Palos, Colombo si presenta con suo figlio Diego, chiedendo acqua e pane per il bambino, e «mostrava d’essere di un’altra terra e di un regno estraneo alla lingua che parlava». Insomma Cristoforo, dopo aver vissuto per cinque anni in Spagna, appena apriva bocca rivelava di essere uno straniero, non solo quando parlava, ma anche quando scriveva.
In questo senso è significativa la lunga nota del 1481 redatta in spagnolo sul libro Historia rerum ubique gestarum di Enea Silvio Piccolomini, ricca di numerosi portoghesismi, a partire dalla data; per alcuni studiosi, anche di genovesismi in uso nella città ligure prima ancora del Cinquecento, che Cristoforo dissemina in altri manoscritti spagnoli, come nel 1502, quando traduce alcuni versi di Seneca che sembrano predire la sua straordinaria impresa americana. Può però apparire singolare che anche l’italiano del nostro autore sia scorretto: le due sole postille che si conoscono nella nostra lingua, scritte nel 1489 a commento della Naturalis historia di Plinio, rivelano chiare contaminazioni con lo spagnolo. Anche le missive inviate nel 1502 a illustri personalità di Genova sono scritte in spagnolo poiché Colombo, divenuto «el almirante mayor del mar oceano y governador de las Indias», è interessato a porre in risalto la lingua imperiale della Spagna, il Paese che lo ha eletto a protagonista importante della storia moderna.
Sappiamo che Colombo, quando torna in Spagna dal suo secondo viaggio, leggeva la Historia di Plinio nella versione italiana di Cristoforo Landino e aggiungeva note manoscritte in spagnolo; volendo però parlare della sua scoperta dell’isola Española, pone una postilla nella nostra lingua, contaminandola di alcuni spagnolismi. Dunque se non parlava bene lo spagnolo e tanto meno conosceva l’italiano, resta da chiarire qual era il grado di conoscenza che aveva dell’altra lingua, il portoghese, a lungo frequentata. In effetti, a parte i primi ventidue o venticinque anni trascorsi a Genova durante i quali parla il dialetto genovese, che non era una lingua scritta, il nostro autore nel 1475 va a vivere a Lisbona, dove si sposa, nasce il figlio Diego, impara e parla il portoghese anche se non riesce mai a scriverlo; per questo ricorre allo spagnolo, e lo fa, si è visto, quattro anni prima di trasferirsi in Spagna, avendo già intuito che è il Paese iberico la sua futura patria linguistica e culturale.
Il grande navigatore aveva un sogno da realizzare, raggiungere le Indie favolose di ricchezze e tesori: per riuscirci, confuse il suo dialetto con le lingue importanti dell’epoca.
Quando all’alba del fatidico 12 aprile del 1492 scorse la sagoma scura della terra americana, gridò in spagnolo: «¡Tierra! ¡tierra!». La cronaca del Diario di bordo nulla aggiunge al tripudio generale dei marinai, ma siamo sicuri che in quel momento la voce e le parole dell’Almirante rivelavano un accento straniero, genovese.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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